“A proposito di Davis”, i Coen per l’elegia di un epoca e del (grande) cinema

A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis, Usa, 2013) di Joel e Ethan Coen, con Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake, John Goodman, Garrett Hedlund, F. Murray Abraham, Stark Sands, Adam Driver, Jerry Grayson, Robin Bartlett, Max Casella, Jake Ryan

Sceneggiatura di Joel e Ethan Coen, ispirato alla biografia del musicista Dave Van Ronk “Manhattan Folk Story” (ed. BUR Rizzoli)

Commedia, 1h 45′, Lucky Red, in uscita il 6 febbraio 2014

Voto: 9 su 10

Tu chiamale, se vuoi, emozioni. Quelle malinconiche, amorevoli emozioni che i Coen sanno così ben filtrare quando raccontano storie, epoche e personaggi a loro congeniali. Tornati malconci dal vecchio west dell’ultimo Il Grinta, i due fratelli di Minneapolis si sono rifatti con A proposito di Davis, già vincitore del Grand Prix della giuria allo scorso Festival di Cannes, e in corsa con due candidature agli Oscar per fotografia e sonoro (troppo raffinato e intimo per stregare più di tanto i membri dell’Academy).

APropositoDiDavisSiamo a New York, 1961, in quel Greenwich Village dove il fermento artistico non si arresta mai. Bazzica il quartiere anche Llewyn Davis (Oscar Isaac), cantautore di talento che cerca di rilanciare da solista una carriera mai davvero avviata nella musica folk, dopo che l’altra metà del suo duo l’ha lasciato solo nel modo più triste. Ha un caratteraccio, raramente fa la cosa più saggia, mai quella giusta, è praticamente al verde e rischia ogni giorno di restare all’addiaccio, ma per fortuna c’è sempre il divano di qualche amico ad ospitarlo. Si fa carico prima di un gatto, poi di un aborto, cerca di raggiungere Chicago per darsi un’ultima possibilità, e ritorna a esibirsi nel locale di sempre. Nel mentre, nel giro di pochi giorni, c’è la vita con tutti i suoi imprevedibili casi.

Llewyn Davis è uno dei più bei personaggi che i Coen abbiano mai scritto: loser nel profondo, umbratile ma tanto indifeso, un randagio sfuggente come il bellissimo gatto rosso che puntualmente entra ed esce dal suo itinerario momentaneamente organizzato. In lui ritroviamo l’inadeguatezza dei meriti in una combinazione sbagliata dei tempi, all’alba della folk music pronta a sorgere di li a poco grazie a un certo Bob Dylan, e commoventi nuances cinematografiche, che vanno dall’incontro col poderoso Goodman versione Orson Welles con bastone, alla curiosità di un micio senza nome che scappa dalla scala antincendio come quello di Holly Golightly. whippedNon ultimo, i Coen cantano l’elegia di un’intera epoca con i toni struggenti della ballata e quelli ironici del destino, toccando vertici di comicità naturale oltremodo straordinaria. Il tutto è accompagnato da una ricercatezza nei dialoghi e nelle interpretazioni, con particolare merito all’eccezionale protagonista Oscar Isaac, che da sempre è il fiore all’occhiello del Coen’s touch.

Il duo registico funziona a meraviglia e non ha perso nulla in lucidità: quando l’impresario F. Murray Abraham sentenzia nostalgico “non si fanno soldi con questa roba” dopo un’appassionata esibizione di Llewyn, soggetto implicito della lapide è questo modo ormai sempre più raro di fare cinema di anima. Un grande film.

Giuseppe D’Errico

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