“Vizio di forma”, Anderson per Pynchon è un delirio d’autore

Vizio di forma (Inherent Vice, Usa, 2014) di Paul Thomas Anderson, con Joaquin Phoenix, Katherine Waterston, Josh Brolin, Reese Witherspoon, Owen Wilson, Benicio Del Toro, Martin Short, Maya Rudolph, Jena Malone, Joanna Newsom, Eric Roberts, Serena Scott Thomas, Martin Donovan, Sasha Pieterse, Michael K. Williams

Sceneggiatura di Paul Thomas Anderson, dal romanzo omonimo di Thomas Pynchon (ed Einaudi)

Grottesco, 2h 28′, Warner Bros. Entertainment Italia, in uscita il 26 febbraio 2015

Voto: 7 su 10

Si definisce “vizio di forma” un difetto che tradisce un ordine prescritto, rendendo di fatto nullo il referente. Vizio di forma è anche il titolo del romanzo di Thomas Pynchon, dal quale è tratto questo omonimo settimo lavoro di Paul Thomas Anderson, forse l’unico degli ultimi grandi autori americani capaci di raccontare ancora la terra delle illusioni in tutta la sua contraddittorietà. Il regista di Boogie Nights e Magnolia traduce in immagini un intraducibile letterario dal quale chiunque ne sarebbe uscito con le ossa rotte. Non è questo il caso, eppure il film non può dirsi riuscito.

VIZIO_DI_FORMA_new_gTentando un’ibridazione disperata tra la vena noir di Chandler e lo spirito gonzo di una generazione hippie tramortita dalla guerra in Vietnam e dagli scandali politici, Anderson riesce a non tradire tanto la forma – fluviale, logorroica e annebbiata dai fumi di droghe e alcol – quanto i contenuti – scoperti e metaforici – dell’originale libresco, dando davvero l’impressione di governare al meglio il non-senso di un’indagine investigativa, quella di Larry “Doc” Sportello (Phoenix) per stanare un milionario (Roberts) al centro di un complotto rivelatogli dall’ex amante Shasta Fey (Waterston), senza capo né coda.

D’altro canto, asseconda fin troppo passivamente il delirio narrativo di Pynchon e la sua baraonda di personaggi dai nomi più improbabili, senza trainare il racconto verso una sostanza cinematografica compiuta. Per meglio dire: il romanzo vanta estimatori ad ogni latitudine e questo film sembra fatto per piacere solo a loro. Tutti gli altri si adeguino a un magma di parole in piena, di situazioni tragicomiche, di figure paradigmatiche senza una chiave di lettura stabile, perché tutto è il contrario di tutto nell’universo immaginario di Gordita Beach a Los Angeles, con buona pace per un narratore di rara efficacia come Anderson.

È il “vizio di forma” di questo film: recitato divinamente, fotografato (da Robert Elswit) e musicato (da Jonny Greenwood dei Radiohead!) con una classe senza fine, con pezzi di cinema da maestro (il lungo botta e risposta finale al neon notturno in interno tra Phoenix e la rivelazione Waterston è indimenticabile), ma senza un giusto compromesso tra pagina e schermo, tra autore letterario e autore cinematografico. O è forse un doveroso rispetto tra talenti che non riusciamo a cogliere: è il “vizio di forma” di questa recensione.

Giuseppe D’Errico

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