The Velvet Underground and Nico – Seconda Parte

Una banana in bella vista su sfondo bianco, la firma ‘Andy Warhol’ in basso a destra e nient’altro. Non deve essere passata inosservata la copertina di ‘The Velvet Underground & Nico’, debutto discografico della band newyorkese arrivato nei negozi di dischi il 12 Marzo 1967. Già, perché in questa prima edizione del disco mancava il nome del gruppo. A questo aggiungiamo l’esigenza di uno specifico (e costoso) procedimento di stampa appositamente ideato per la veste grafica ed il disastro è dietro l’angolo: produzione prontamente bloccata , col ritiro delle copie già distribuite.
E i musicisti, direte voi, non avevano voce in capitolo? Sulla musica senza dubbio, sulle scelte grafiche molto meno: era stato Warhol infatti a finanziare le registrazioni del disco e, pur non essendone il produttore come molti erroneamente pensano, restava comunque il padre putativo del progetto.
Entriamo ora nel merito squisitamente musicale di un 33 giri decisamente irriverente.

The Velvet Underground & Nico, traccia per traccia

E’ un delicato carillon ad introdurre ‘Sunday Morning’, opener dell’album. La voce di Lou Reed è dolce, poco più che sussurrata, il ritmo rilassato, ma la Domenica mattina del titolo è tutt’altro che serena: ‘Sunday morning/And i’m falling/I’ve got a feeling i don’t want to know’ si legge infatti nel testo.
Incalza arrembante il secondo pezzo, una ‘I’m waiting for my man’ in cui si palesa quella poetica dei bassifondi che pervade un po’ tutto il disco. Lou narra in prima persona la timorosa escursione ad Harlem di un white boy in cerca di droga lungo la ‘Lexington 125/Feeling sick and dirty, more dead than alive’. Il pezzo non è cantato, al contrario Reed racconta allontanando ogni parvenza di melodia vocale supportato da una base ritmica sostenuta in cui si scorge anche lo scandito boogie del piano di John Cale.
E’ la volta di ‘Femme Fatale’, una love song in cui Reed lascia il microfono alla chanteuse Nico. La voce profonda ma algida della bionda tedesca risalta su un arrangiamento scarno. Lou lo si sente nei cori, ma il testo è tutto suo: lo scrisse su invito dello stesso Warhol dedicandolo a Edie Sedgwick, vera punta di diamante femminile della Factory.
Con ‘Venus in Furs’ ci troviamo di fronte ad un brano oscuro, una sorta di rituale scandito dalle percussioni marziali di Maureen Tucker. La canzone era stata utilizzata come accompagnamento per la performance di uno show di Warhol dal gusto torbido e decadente. La trama musicale si affida ad un accordo chitarristico minimale ripetuto in modo ossessivo. Cale partecipa con la sua viola dissonante, mentre Lou recita la sua storia con fare ‘malato’, morboso ma solenne e impassibile.
‘Run Run Run’ è l’ennesima discesa della penna di Lou Reed nel mondo junkie di New York. Stavolta l’ambientazione è Manhattan, Union Square, in cui bazzicano quattro tossici disperati in cerca della roba. Qui come non mai Reed è abile nel dipingere un microcosmo suburbano con linguaggio iperrealista, introducendo personaggi borderline e le loro drammatiche vicende. L’incedere del pezzo è portato sopra le righe da un assolo di chitarra dissonante e fastidioso, musicalmente sgrammaticato ma quanto mai appropriato al contesto.
Ritorna Nico e con lei l’austera ‘All Tomorrow’s Parties’. Che cosa sono ‘le feste di domani’ è tutto da capirlo in questo testo criptico ed enigmatico, una sorta di favola dark  liberamente ispirata alla storia di Cenerentola. L’introduzione pianistica è preludio alla recita di Nico, una liturgia ‘lontana’ ma a suo modo passionale, tanto da fare di questa canzone la preferita di Andy Warhol. Una cosa è certa, il testo di ‘All Tomorrow’s Parties’ è una delle più suggestive  poesie scritte da Reed.
Ecco poi ‘Heroin’, il lungo, paranoico viaggio dei Velvet nella mente di un tossicomane dove utopie di purezza atemporale si mescolano al disagio e a concreti presagi di morte. Reed utilizza un registro linguistico crudo ed è proprio l’assenza di enfasi e di strategie empatiche a conferire al pezzo una forte e asciutta drammaticità. La band da parte sua costruisce un tappeto musicale desolante supportato da una stentata chitarra e da un crescendo percussivo inarrestabile, fino all’esplosione di tutti gli strumenti in una sinfonia dissonante, rumorosa e sgradevole esaltata dalla viola impazzita di Cale.
Dopo questo tour de force emotivo il disco si ‘adagia’ su lidi più melodici con le seguenti ‘There She Goes Again’ e ‘I’ll Be Your Mirror’, gemella quest’ultima di ‘Femme Fatale’ con Nico dietro al microfono a fare la Marlene Dietrich nel testo più romantico dell’album.
Niente paura comunque: il gran finale è affidato ad una coppia di brani tutt’altro che compiacenti, in cui ritroviamo quell’attitudine sperimentale più vicina al rumore che non all’armonia. Detto di una ‘The Black Death Angel’s Song’ che conferma la vena declamatoria della voce di Lou, arriva a concludere il vinile ‘European Son’, vera e propria escursione noise ante-litteram, in cui la tendenza a portare all’estremo il ‘linguaggio’ degli strumenti a volume alto trova definitivo sfogo.

Alessio Spina

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