“Civiltà perduta”, un film di James Gray, la recensione

Civiltà perduta (The lost city of Z, Usa, 2017) di James Gray con Charlie Hunnam, Robert Pattinson, Sienna Miller, Tom Holland, Angus MacFadyen, Edward Ashley, Clive Francis, Ian McDiarmid, Franco Nero

Sceneggiatura di James Gray, tratta dal romanzo “Alla ricerca di Z La città perduta” (ed. Tea, coll. Teadue)

Avventura/biografico, 2h 20’, Eagle Pictures/Leone Film Group, in uscita il 22 giugno 2017

Voto: 5½ su 10

C’è quasi da dispiacersi per il “povero” Charlie Hunnam, che incappa nel secondo flop consecutivo – dopo il risibile e bruttissimo King Arthur di Guy Ritchie – oggi protagonista di un film debolmente drammatico, esasperantemente lungo e, soprattutto, di scarsa compattezza narrativa.

Lo sguardo del regista James Gray ci racconta la storia del maggiore Percy Fawcett, che agli inizi del ‘900 venne assoldato dalla Royal Geographical Society di Londra per mappare il confine tra Brasile e Bolivia; partito per la giungla amazzonica e sopravvissuto fortunosamente ad una prima spedizione colma di pericoli, spenderà il resto della vita alla ricerca di una leggendaria civiltà scomparsa, da lui denominata “Z”, sacrificando sull’altare della sua ossessione anche le più strette relazioni familiari.

53219Panorami di natura incontaminata nei quali si nascondono perigli di ogni sorta (piranha, febbri tropicali, indigeni ostili) non bastano, purtroppo, a rendere il senso della totalizzante attrazione che ammaliò l’esploratore inglese: in questo “Civiltà perduta” a smarrirsi è proprio la sensazione della sfida oltre i limiti delle umane possibilità, dell’uomo che lotta per raggiungere un obiettivo appagante proprio perché apparentemente irraggiungibile. Vedere il personaggio di Hunnam accolto da una tribù di cannibali che si rivelano sorprendentemente civili, o ascoltarne i battibecchi con il viziato e incapace avventuriero interpretato da Angus Macfadyen, smorzano ogni senso di meraviglia – o avventura – che sarebbe lecito aspettarsi in una pellicola del genere. La formalità dello stile registico di Gray è lodevole ma ben lontana dalla forza visiva di pellicole come il “Revenant” di  Iñárritu, nel quale l’elemento scenografico era essenza, anima e protagonista della narrazione tanto quanto gli attori in carne e ossa.

Anche nel suo epilogo il film soffre di una pressoché totale mancanza di pathos: si sceglie un finale conciliante e delicatamente romantico stemperando del tutto la drammaticità di un fatto realmente accaduto (Fawcett scomparve nel nulla durante la prima esplorazione compiuta assieme al suo primogenito) e ad oggi senza nessuna spiegazione esaustiva.

Sono paradossalmente più interessanti i racconti dei viaggi in patria di Fawcett e delle di lui relazioni con i figli e, soprattutto, con la moglie Nina, che lo sosteneva e lo appoggiava pur soffrendo per la sua endemica assenza: Sienna Miller, in effetti, ruba la scena al volenteroso ma poco carismatico Hunnam, dipingendo con efficacia il ritratto di una donna intelligente e sensibile, innamorata ma, al contempo, fieramente indipendente dal proprio uomo.

Marco Moraschinelli

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