Nymphomaniac – Vol. I (Nymfomanen, Danimarca/ Germania/ Francia/ Belgio, 2013) di Lars von Trier con Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård, Stacy Martin, Shia LaBeouf, Jamie Bell, Connie Nielsen, Christian Slater, Uma Thurman, Udo Kier, Willem Dafoe, Jean-Marc Barr, Sophie Kennedy Clark, Mia Goth, Jens Albinus, Severin von Hoensbroech, Nicolas Bro, Michaël Pas, Hugo Speer, Felicity Gilbert, Jesper Christensen
Sceneggiatura di Lars Von Trier
Drammatico, 2h 02′, Good Films, in uscita il 3 aprile 2014
Voto: 7 su 10
Il cinema di Lars Von Trier meriterebbe (e ambirebbe a) una scala di giudizio del tutto personale che possa assecondarne l’arroganza e l’egocentrismo. L’ultimo capitolo della sua personalissima “trilogia della depressione”, inaugurata con Antichrist e proseguita con Melancholia, si chiude adesso con l’ormai leggendario Nymphomaniac, arrivato ai lidi della distribuzione ufficiale dopo mesi di stressante grancassa mediatica – causa hard d’autore con doppia parentesi nel titolo in locandina a parlare da sé – ma giunto nelle sale, ahinoi, non solo troncato in due parti (questa è, appunto, la prima) ma anche in una forma mutila ed edulcorata di tutte le sequenze di sesso non simulato.
Ai fini ultimi di un discorso estetico e contenutistico sul film, quest’aspetto diventa ovviamente rilevante da un punto di vista puramente artistico, e non c’è bisogno di ribadire il concetto della censura arbitraria ai danni di un opera violata degli intenti del proprio autore. In un ottica più ampia e meno purista, invece, è piuttosto evidente quanto l’elemento pornografico sia solo il tassello principale di una calcolatissima campagna promozionale che il regista per primo non ha mancato di alimentare.
Per meglio dire, Nymphomaniac usa, in superficie, una mitica fantasia erotica maschile – la donna ninfomane – declinata in un arco cronologico piuttosto importante, per porre in scena un meccanismo drammaturgico che fa diretto riferimento al processo narrativo cardine, quello dell’autore con il pubblico, di chi racconta e di chi accoglie il racconto ascoltando, in maniera non meno eclatante, solo più in ombra rispetto alla vorticosa attività sessuale della protagonista, vittima sacrificale del caso in via di catarsi, mostrata senza tema di sorta.
Il film si fonda su un impianto estremamente tradizionale: un uomo (Skarsgård) trova una donna (Gainsbourg) svenuta e pesta in un vicolo, la porta a casa sua, la mette a letto e cerca di confortarla. Ha inizio una curiosa seduta di psicanalisi dagli sviluppi completamente imprevedibili, dove la paziente, opportunamente distesa, incomincia a raccontare la storia della sua patologia, dalle prime curiosità infantili fino alla ferocia copulatoria dei vent’anni (la interpreta l’efebica esordiente Stacy Martin), in cui arriva a consumare anche dieci amplessi al giorno con dieci uomini differenti. Nel registrare le peccaminose confessioni, l’uomo soccorritore avanza similitudini disparate e scorge qualche falla di logica…
Ad ogni nuova immagine erotica suggerita dalla ninfa oratrice segue il contrappunto erudito di chi la ascolta. Ma i risvolti sono talmente ironici che diventa arduo non interpretare il film come l’ennesimo sberleffo di un autore da sempre sprezzante verso tutto ciò che lo circonda, genere umano in testa. L’adescamento di un numero imprecisato di uomini sul treno diventa pretesto per dissertare delle varie tecniche di pesca con l’amo e la rete, mentre il numero di “colpi” ricevuti dalla protagonista al momento della deflorazione si trasformano nella formula di Fibonacci: tutto ciò, oltre ad essere stupendamente ridicolo e volutamente comico, pare una credibile mossa offensiva verso tutti quelli che si ostinano, impunemente, a prendere il regista fin troppo sul serio e, da abile paragnosta, lui ripaga servendo un corollario di ossessioni assortite in cui ognuno è libero di vederci e trovarci quanto di meglio preferisce. Così facendo, la narrativa dell’autore si impone superbamente e senza concessioni verso chi ha accettato di starlo a sentire, e suona lapidario il dialogo tra Skarsgård che nota l’implausibilità di un episodio appena riferito dalla sua favoleggiatrice Gainsbourg, prontissima a zittirlo: “Preferisci seguire il filo del mio racconto per come lo faccio o smettere perché non ti sembra plausibile?“. L’automatismo è ormai avviato.
Giunti a patti col gioco crudele di Lars Von Trier, se ne può avvertire anche il limite, a partire dall’autorizzata divisione in due volumi, null’altro se non una spia tesa a caricare ulteriormente il chiacchiericcio infame di cui il regista non sembra mai sazio. Allo stesso modo, sarebbe scorretto da parte nostra non riconoscerne, in più punti, la genialità nel creare situazioni e atmosfere di assoluta efficacia. Parla chiaro, in tal senso, l’episodio che vede mattatrice assoluta una grande Uma Thurman, il terzo dei cinque capitoli che compongono questo primo volume, e che merita di rientrare di diritto tra i memorabilia del tragicomico cinematografico.
Sebbene lo stile visivo sia diventato sorprendentemente controllato negli anni, l’estetica accusa una certa stanchezza nel ricorrere a sovrimpressioni, diffusioni e concetti esposti che ricordano un epigono di Peter Greenaway; permane anche una sensazione di scarsa coesione drammatica, tradotta in una fragilità di obiettivi che non trovano ordine neppure ripensando ai singoli episodi. Ma ne riparleremo in seguito: sui titoli di coda, i Rammstein ci strillano verso un secondo tempo ben più audace. Alla faccia del cinema d’autore…
Giuseppe D’Errico
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