Downton Abbey (id, GB, 2019) di Michael Engler con Hugh Bonneville, Laura Carmichael, Jim Carter, Raquel Cassidy, Brendan Coyle, Michelle Dockery, Kevin Doyle, Michael C. Fox, Joanne Froggatt, Matthew Goode, Harry Hadden-Paton, Robert James-Collier, Allen Leech, Phyllis Logan, Elizabeth McGovern, Sophie McShera, Maggie Smith, Imelda Staunton, Lesley Nicol, Penelope Wilton, Mark Addy, Max Brown, Stephen Campbell Moore, Richenda Carey, David Haig, Andrew Havill, Geraldine James, Simon Jones, Susan Lynch, Tuppence Middleton, Kate Phillips
Sceneggiatura di Julian Fellowes, dall’omonima serie tv creata da Julian Fellowes
Commedia, 2h 04’, Universal International Pictures, in uscita il 24 ottobre 2019
Voto: 7 su 10
A grande richiesta dei milioni di telespettatori che ne hanno seguito con devota passione le sei stagioni sul piccolo schermo, ecco arrivare, a quattro anni dal 52esimo e ultimo episodio, il film di Downton Abbey, forse il serial più celebrato degli ultimi anni. L’approdo al lungometraggio, oltre a fare la felicità dei fan, porta ad estremo compimento un’operazione drammaturgica che celebra il diletto dello sguardo nella futilità dell’azione con impareggiabile senso narrativo, frutto della penna inconfondibile di Julian Fellowes, già premiato con l’Oscar per il copione dell’analogo Gosford Park di Robert Altman, creatore della serie e firmatario d’obbligo di questa sortita cinematografica.
La splendida tenuta edoardiana del titolo è sempre abitata dall’aristocratica famiglia Crawley e dal personale di servizio che per loro lavora. Una missiva giunge inaspettata da Buckingham Palace: il re Giorgio V e la regina Mary d’Inghilterra (per intenderci, i nonni dell’attuale regina Elisabetta) soggiorneranno da loro per una notte. Fervono dunque i preparativi, non solo tra la servitù in tumulto, ma anche per i padroni di casa, intenti a tenere sotto controllo le delicate trame tra consanguinei capitanate dalla matriarca Lady Violet Crawley (una ineffabile Maggie Smith). Ma all’estasi dell’attesa per cotanto evento segue la delusione dei domestici nel vedersi sostituiti per l’occasione dall’arrogante staff della Casa reale: sarà ammutinamento.
A fronte di una trama che porta al trionfo la frivolezza di tanti piccoli intrighi di lusso, c’è il piacere innegabile e prezioso di (ri)trovarsi perfettamente a proprio agio in un assetto che non tradisce mai forma e contenuti dell’originale televisivo. Il film di Downton Abbey, però, pur conservando una sua individualità di racconto, deve quasi necessariamente tirare anche le fila di un’epopea famigliare che si appresta a scontrarsi con i tempi che cambiano. In un’ottica velatamente gattopardiana, tutto prenderà nuove forme attorno a Downton Abbey, ma nulla cambierà davvero: lo spirito combattivo e sardonico di Lady Violet cederà il posto alla saggezza della nipote Mary (Michelle Dockery), lo storico maggiordomo Carson (Jim Carter) sarà sempre vigile lungo il corso del suo sostituto Thomas Barrows (Robert James-Collier) e nuove unioni giungeranno a consolidare il prestigio della casata. Quelle mura, però, rimarranno ferme e pronte ad accogliere ciò che verrà, vestigia sublime di un’epoca ancora scevra dalle brutture della modernità.
Quasi superfluo sottolineare la cura della confezione e l’affiatamento recitativo tra tutti gli interpreti, con ovvia menzione speciale per gli alterchi ironici tra la solita grande Maggie Smith e la più remissiva Penelope Wilton, alle quali si aggiunge un’altra dama del cinema inglese, Imelda Staunton, in un ruolo chiave per ricomporre lo scacchiere dei legami di parentela sparigliato da antichi dissapori. Il regista Michael Engler, già in passato alle prese con la direzione di alcuni episodi della serie, asseconda a dovere la danza tra chi popola i piani alti e quelli bassi, mettendosi completamente a servizio di una tradizione che non prevede impennate. Resta l’emozione di nomi e luoghi dai quali ci si lascia piacevolmente trasportare, a cominciare dai titoli di testa che, nel crescendo orchestrale di John Lunn, ci riportano dopo un lungo percorso di ritorno all’abbazia di Downton. Non è detto che le sue porte si siano chiuse per sempre.
Giuseppe D’Errico
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