Le pubblicazioni editoriali italiane dedicate alla serialità americana sono presenti sugli scaffali delle librerie in numero inversamente proporzionale all’affollamento di nuovi telefilm sui vari network televisivi. Proprio per questo, un saggio come American Horror Story – Mitologia moderna dell’immaginario deforme, scritto da Daniel Montigiani ed Eleonora Saracino per Viola Editrice, è un’occasione che vale davvero la pena di essere segnalata.
Il volume passa in rassegna, con fare ardito e straordinaria limpidezza formale, le prime cinque stagioni di uno dei serial che maggiormente hanno segnato l’immaginario televisivo degli ultimi anni in fatto di sperimentazione narrativa, fusione di generi e audacia stilistica. L’epopea antologica di American Horror Story, nata dalla creatività vulcanica di Ryan Murphy e Brad Falchuk – già artefici di alcuni cult seriali come Nup/Tuck e Glee – passa in rassegna il lato oscuro dell’America, in chiave orrorifica e sconvolgente, attraverso alcuni dei suoi luoghi più classici e riconoscibili: una casa infestata dagli spiriti, un manicomio cattolico, una caccia alle streghe, un tendone da circo degli orrori e un albergo sepolcrale.
Chi conosce e ha amato questa serie, tuttora in onda con la sesta stagione, è al corrente dell’inconsueta stratificazione di temi e suggestioni che, puntata dopo puntata, tendono a creare un universo in grado di valicare la stessa divisione narrativa per blocchi tramite geniali quanto fugaci connessioni. Proprio in questo senso, il libro di Montigiani e Saracino diventa impagabile: i due autori, dopo un evidente e approfonditissimo studio, sono riusciti non solo a proporre uno spettro totale degli archetipi letterari, artistici e cinematografici sui quali poggia una produzione tanto ricercata, ma sono anche stati in grado di infondere uno spessore psicologico insperato ai molteplici rimandi che costellano le cinque differenti narrazioni.
A emergere è un quadro tanto minaccioso quanto affascinante e travolgente della società americana, (ri)letta attraverso gli occhiali rosa (o rosso sangue) di un impianto fiabesco in senso kafkiano, una sorta di ammaliante favola nera del contemporaneo intrisa di angoscia e morte, “che manipola, deforma e re-interpreta i modelli del nostro immaginario”. Come è ben chiarito nell’introduzione al testo, “le storie […] raccontano la deformazione di un sogno (quello americano ma non solo), danno corpo agli incubi e, in luogo di renderci passivamente partecipi della narrazione televisiva, fanno in modo di trascinarci nella sua atmosfera perturbante poiché parlano a noi e di noi, smascherando mostruosità che appartengono all’umano”.
Il merito di un risultato così alto, frutto di una scrittura spesso spiazzante e di una commistione sublime di generi in cui convivono perfettamente horror, grottesco, melò e camp, è anche da attribuire ai registi che si sono succeduti dietro la macchina da presa (da Michael Lehmann ad Alfonso Gomez-Rejon) e, inevitabilmente, all’eccezionale cast di interpreti, capitanato da una immensa Jessica Lange: è lei l’anima dello show, tanto che, dopo il suo abbandono alla fine della quarta serie, l’intero impianto ha patito la sua assenza, nonostante l’entrata in scena della popstar Lady Gaga e la presenza di personalità eccelse quali Kathy Bates, Sarah Paulson e Angela Bassett.
Ma, al di là dei pregi universalmente riconosciuti ad American Horror Story, preme evidenziare la completezza di un lavoro di ragionamento e ricerca che esula da una mera critica compilativa: Montigiani e Saracino, con questo testo, entrano nell’elemento vivo, lo vivisezionano e lo analizzano a più livelli, interrogandosi e portandosi al pari delle situazioni e dei personaggi che affrontano, divenendo anche’essi mostri. Ma di bravura.
Giuseppe D’Errico
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