Al cuore (oscuro) della creazione: “Bahamut”, il cantiere aperto di Antonio Rezza e Flavia Mastrella

BAHAMUT
di Antonio Rezza e Flavia Masterlla
regia di Antonio rezza e Flavia Mastrella
con Antonio Rezza, Giorgio Gerardi, Ivan Bellavista
In scena al Teatro Vascello di Roma dal 17 al 22 dicembre 2013

VOTO: 10 su 10

Una scatola cubica luminosa si staglia nel nero della sala; viene dal nero e al nero, spesso, non disdegna ricondurci per una visione senza visione: “ma che v’aspettavate?”

E’ questa la camera rappresentativa di un puro dispositivo energetico: nei suoi spazi, spigoli, angoli, prospettive, qualcosa di topologicamente pensabile e praticabile forse solo come una banda di Moebius. Rezza 3A scorrerla fin quasi a sfinirla (fin quasi a sfinirvisi) è quell’indisciplinata macchina ormai unanimemente riconosciuta nella formula “antoniorezza”, capace di saltare e danzare proprio come un imbecille, o uno di quei santi idioti invocati, e-vocati da Carmelo: una sorta di Giuseppe da Copertino insomma, o un Francesco d’Assisi che balla davanti al papa. Verme scintillante, erratica lucciola, a insinuarsi nei cantucci, nei pertugi, nelle sinuosità di un habitat ideato da Flavia Mastrella che in una scultura ingigantita in fibra sintetica precipita delle suggestioni tratte direttamente  dai giocattoli del litorale di Anzio. Banda interminabile a geometria variabile: a contare è solo l’intensità che vi scorre.

Presentato per la prima volta nel 2006 all’Ortigia Festival, Bahamut è probabilmente il lavoro più ferocemente politico di questa coppia di artisti. E proprio contro l’economia politica del corpo organico (il capitale che nella figura e nei gesti del Padrone/Porfirio trova in questo spettacolo la sua propria incarnazione in quell’essenza soggettiva astratta della ricchezza che Marx aveva saputo riconoscere nel lavoro e nella produzione come nel desiderio) si erge per contro in puro spreco di forze ed energie un patchwork di miserabile, variopinta, umanità.

Rimarrà puntualmente deluso quel pubblico che si aspetterà di leggere nei vari brani rappresentati una possibile linea consecutiva. In questo il Borges de Il libro degli esseri immaginari (da cui l’opera si lascia ispirare) non è tradito ma ricalcato, vivificato, nella frequentazione di un gioco tremendamente serio di forme mutevoli rivelate come in un caleidoscopio. Eppure in tutta questa operazione non v’è nulla d’astratto , anzi, se in qualche modo l’ideale struttura del pesce-mostro è qui ricostruita, questo avviene sulla base della più salda immanenza.  La scatola teatrale di cui sopra ci si apre come uno scrigno rivelandoci della mitologica creatura le viscere teatrali.

Nello sconquasso da cui è preso lo stesso corpo di Rezza non fa che svelarcene continuamente i meccanismi, i trucchi. Si pensi alla delicata poetica che si lascia afferrare nell’ ingranaggio d’un tratto bloccato dell’orologio a cucù.  Di questo passerotto rimasto al di qua di un qualche sipario e condannato a vagare per il resto dei suoi giorni strillando il suo grido strozzato a chi non potrà mai comprenderlo. Passerotto corsaro, come tenacemente corsara è stata in fondo in tutti questi anni la stessa arte dei rezzamastrella, prima d’ arrivare a ottenere i dovuti riconoscimenti (Premio Speciale Ubu 2013) . Spettacolo politico abbiamo detto, ma anche particolarmente ritmico (nelle linee, nei colori, nel virtuosismo delle stoffe danzate da Rezza) e musicale, nel balbettio ormai celebre creato dal genio (sì, l’ho detto, genio) del performer. Tutt’altro che riducibile a una semplice poltiglia di idiomi, è prezioso indizio di una ricerca per un “teatro della lingua” capace di far resistenza a una certa politica dominante della Parola e del testo. Indizio qui suffragato dall’episodio di efferatezza ‘colonialista’ tutt’altro che “leggero” consumato ai danni di gruppo di Indios espropriati della loro terra, ai quali non resta altro che intonare a fior di labbra, alla lettera, un canto di resistenza per denunciare il delitto di un’identità violata.

Se si ride soltanto, se si resta così a un puro, immediato livello di provocata ilarità, non si è capito granché. V’è infatti un sottopelle di crudeltà (nel senso propriamente artaudiano del termine) che non si lascia riassorbire dal discorso comico, dalla rappresentazione comica. Ma che rimane a vibrare come un qualcosa di imponderabile, come una sorta di vita liberata appunto e che ogni sincero corpo a corpo con Antonio non può che denunciare.

Patrizia Fantozzi

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