Youth – La giovinezza (Youth, Svizzera/Francia/GB/Italia, 2015) di Paolo Sorrentino con Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Jane Fonda, Paul Dano, Madalina Ghenea, Ed Stoppard, Mark Kozelek, Robert Seethaler, Alex MacQueen, Sonia Gessner, Luna Mijovic
Sceneggiatura di Paolo Sorrentino
Drammatico, 1h 58′, Medusa, in uscita il 20 maggio 2015
Voto: 6 su 10
Da un grande talento derivano grandi responsabilità. Dovrebbe saperlo bene Paolo Sorrentino, uno dei nostri migliori animali da regia, che reduce dall’Oscar vinto per La grande bellezza, era attesissimo con questa sua seconda opera girata in lingua inglese, dopo il modesto This must be the place con Sean Penn. Questa volta ha potuto fregiarsi di interpreti sublimi quali Michael Caine, Harvey Keitel e Jane Fonda, e di un altrove geografico (le Alpi svizzere) in assoluta controtendenza con la fauna gozzovigliante del film che gli ha meritato il plauso internazionale. Eppure Youth – La giovinezza è un film assai deludente, perché profondamente vacuo e pretenzioso.
Prendiamo il protagonista Fred Ballinger (Caine), un direttore d’orchestra ottantenne, in congedo dalla professione, che viene “disturbato” da un emissario della regina d’Inghilterra, durante il suo ritiro in un elegante sanatorio svizzero, per tornare a dirigere un concerto di sue composizioni. Questo pretesto darà il via a una serie di “appuntamenti” in cui il nostro si confronterà con altrettanti personaggi a lui più o meno legati: l’amico e coetaneo Mick Boyle (Keitel, eccelso), un regista sul viale del tramonto in procinto di girare il suo ultimo film/testamento con la diva (una fenomenale Fonda) che contribuì a lanciare molti decenni prima; la figlia e assistente Lena (Weisz), di fresco mollata dal marito e piena di astio nei confronti di un padre non proprio modello; l’attore Jimmy Tree (Dano), mestissimo e insoddisfatto volto da blockbuster che sogna di essere preso sul serio. E poi Miss Universo (Ghenea), Maradona, un monaco tibetano che levita nell’aria, una coppietta taciturna, il genero fedifrago (Stoppard) e tanti altre anime purganti.
Alla fine capiamo il perché del rifiuto di Fred di tornare sul palco, ma nel mezzo c’è una serie tale di aneddoti, aforismi, massime e mezze frasi a effetto da mortificare il concetto di scrittura cinematografica. L’arguzia di certe considerazioni sulla vecchiaia, la morte, le relazioni e l’estro artistico andrebbero annotate per quanto centrate, altre scadono in una pigra banalità; entrambe, però, non arrivano a creare una narrazione efficace, e la fragilità della progressione drammatica cozza inesorabilmente con la magniloquenza di ogni singola inquadratura, creata ad arte anche grazie alla fotografia straordinaria di Luca Bigazzi, capace di fare l’impossibile, incastonando volti e cose tra oscurità e splendore.
In questo modo, Youth diventa un film saccente e superbo in senso deleterio, perché finge profondità sfruttando una tecnica visiva tanto eccezionale, barocca, eccessiva e stordente quanto manieristica, inopportuna e anche un po’ cafona, senza mai affidarsi a uno sviluppo drammaturgico dei personaggi e dei temi affrontati che non sia estremamente superficiale. Valga per tutti il momento in cui la bravissima Rachel Weisz recita un monologo in primissimo piano, in cui sciorina tutte le mancanze affettive e gli errori commessi dal padre, colpevole anche di aver avuto una relazione omosessuale durante il matrimonio: il pezzo è di un’artificiosità disarmante, alla luce del mancato approfondimento psicologico precedente e posteriore alla situazione.
Il film è tutto così, un susseguirsi di scene indimenticabili che racchiudono un nulla desolante. Del talento bisogna farne buon uso e non solamente sfoggiarlo con tanta presuntuosa ostentazione. Sorrentino ha un dono raro: una capacità di sguardo cinematografico fuori dal comune, tanto più da salvaguardare perché ormai bandito dalle inerti produzioni italiane. Ed è un peccato che tale fortuna sia al servizio di un’operazione priva di urgenza, falsificata, formalmente ammaliante ma con un’anima d’argilla che appena la sfiori si sgretola, costruita con perfezione tale da annientare ogni tentativo di emozione. Così, il passo tra talento ed esibizionismo si fa breve, e tra onirismi felliniani (imbarazzante la sequenza con le donne del regista nella vallata) e dettagli che fanno tanto “poetico” (la carta della caramella), gli unici a brillare sono gli occhi di Michael Caine, cui neppure l’immancabile montatura laccata dei personaggi sorrentiniani ha potuto offuscare.
Giuseppe D’Errico
[…] Prendiamo il protagonista Fred Ballinger (Caine), un direttore d’orchestra ottantenne, in congedo dalla professione, che viene “disturbato” da un emissario della regina d’Inghilterra, durante il suo ritiro in un elegante sanatorio svizzero, per tornare a dirigere un concerto di sue composizioni. Questo pretesto darà il via a una serie di “appuntamenti” in cui il nostro si confronterà con altrettanti personaggi a lui più o meno legati: l’amico e coetaneo Mick Boyle (Keitel, eccelso), un regista sul viale del tramonto in procinto di girare il suo ultimo film/testamento con la diva (una fenomenale Fonda) che contribuì a lanciare molti decenni prima; la figlia e assistente Lena (Weisz), di fresco mollata dal marito e piena di astio nei confronti di un padre non proprio modello; l’attore Jimmy Tree (Dano), mestissimo e insoddisfatto volto da blockbuster che sogna di essere preso sul serio. E poi…segue su *Critical Minds […]