Venezia77 – Fuori Concorso: “Lacci”, un film di Daniele Luchetti, la recensione

Lacci (Italia, 2020) di Daniele Luchetti con Alba Rohrwacher, Luigi Lo Cascio, Laura Morante, Silvio Orlando, Giovanna Mezzogiorno, Adriano Giannini, Linda Caridi, Simona Tabasco, Antonio Palmese, Antonella Monetti, Francesca De Sapio, Giovannino Esposito, Sveva Esposito, Vito Vinci

Sceneggiatura di Domenico Starnone, Daniele Luchetti e Francesco Piccolo, dal romanzo omonimo di Domenico Starnone (Einaudi)

Drammatico, 1h 40’, 01 Distribution, in uscita il 1 ottobre 2020

Voto: 5½ su 10

La metafora del titolo è facile facile, oltre che abbondantemente spiegata in una sequenza quantomeno didascalica e gratuita: i lacci delle scarpe, annodati tra loro in un modo curioso, diventano il simbolo di un legame di sangue indissolubile eppure fragile, accidentato, sempre sul punto di sciogliersi. Daniele Luchetti torna con Lacci, dal best seller omonimo di Domenico Starnone, a riflettere sulla fatalità dell’istituzione famigliare italiana tra affresco d’epoca e contemporaneità, circondandosi di un cast di prima grandezza e aprendo a sorpresa, ma fuori concorso, la 77ª Mostra del Cinema di Venezia.

Siamo a Napoli, nei primi anni Ottanta. La famiglia è quella di Aldo (Luigi Lo Cascio), un conduttore radiofonico alla sede Rai di Roma, e di Vanda (Alba Rohrwacher), insegnante: dopo aver partecipato a una festa con i figlioletti Anna e Sandro, lui confessa alla moglie di averla tradita con una collega romana, e lei lo caccia di casa. Oggi, Aldo (Silvio Orlando) e Vanda (Laura Morante) vivono ancora insieme, protetti da un’acrimoniosa routine destinata in breve ad esplodere.

Scritto da Luchetti e Starnone con Francesco Piccolo, Lacci vorrebbe poter riflettere in modo non banale sulla passività dell’individuo incatenato a un ruolo sociale e sull’incapacità, volontaria o meno, di proteggere i figli dagli egoismi dei genitori, pur rimanendo all’interno delle connotazioni tipiche di una classica commedia all’italiana. Peccato, quindi, che il film, pur gradevole nella sua intelaiatura narrativa che dissemina indizi tra più incastri temporali, resti sempre alla superficie di un discorso, in realtà, ben più amaro e crudele sui dissidi famigliari.

La sceneggiatura, più attenta a intavolare un raffinato quanto facile gioco di ricostruzione con lo spettatore, si perde in dialoghi pesantemente scritti e in reazioni improbabili quando deve mettere alle strette i personaggi con le rispettive colpe. Resta l’immedesimazione spinta di un gruppo di interpreti non sempre in parte, al di là della semplice fisiognomica, e un divertito lavoro di costumi. Ancora una volta, al cinema italiano manca il coraggio di indagare nel marcio, di infastidire, di disturbare.

Giuseppe D’Errico

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