Venezia76 – Fuori Concorso: “The Burnt Orange Heresy”, la recensione

The Burnt Orange Heresy (id, GB/Italia, 2019) di Giuseppe Capotondi con Claes Bang, Elizabeth Debicki, Mick Jagger, Donald Sutherland, Rosalind Halstead

Sceneggiatura di Scott B. Smith dal romanzo “Il quadro eretico” di Charles Willeford

Thriller, 1h 38’

Voto: 6 su 10

I film ambientati nel mondo dell’arte hanno sempre un ché di fasullo, produzioni sontuose travestite spesso da thriller (l’esempio più eclatante è La migliore offerta di Giuseppe Tornatore) e che, altrettanto di frequente, si risolvono in pasticciacci senza spessore. The Burnt Orange Heresy non fa eccezione ma, a dispetto di una confezione coi fiocchi (costumi di Gabriella Pescucci, musiche di Craig Armstrong) e di un cast decisamente intrigante, ha ambizioni di gran lunga inferiori alle apparenze, o almeno così sembrerebbe, data la sostanziale pochezza di contenuti e i toni pleonastici di certi motivi ricorrenti.

Ennesima variazione sul tema del Faust, il film riporta l’avvenente Claes Bang nei panni di un critico d’arte, anche se il suo James Figueras è molto lontano dalla dabbenaggine del protagonista del film di Ruben Östlund; l’attore danese è qui alle prese con un personaggio tanto carismatico quanto sfuggente e problematico, che cela le proprie insicurezze dietro a una facciata di fascinosa eleganza. Insieme alla sua giovane amante Berenice (Elizabeth Debicki) si reca sul lago di Como nella villa di un collezionista d’arte dandy, interpretato con molta autoironia nientemeno che da Mick Jagger: l’occasione dovrebbe essere l’intervista all’imprendibile Jerome Debney (Donald Sutherland), un misterioso pittore ospite della tenuta, la proposta è quella di sottrarre un prezioso dipinto dell’artista, unico superstite della sua produzione. Chi vuole fare le scarpe a chi?

L’italiano Giuseppe Capotondi, esule oltreoceano, al suo secondo lungometraggio dopo dieci anni dall’esordio con La doppia ora e con una robusta esperienza televisiva e nei videoclip (suo il celeberrimo Secretly degli Skunk Anansie), si approccia alla materia con fare divertito. La sceneggiatura di Scott B. Smith, tratta dal romanzo “Il quadro eretico” di Charles Willeford, non brilla per originalità e si affida fin troppo all’indulgenza dello spettatore quando infila un colpo di scena dietro l’altro. Meglio lasciarsi trasportare dalle atmosfere algide e glamour che richiamano speranzosamente Hitchcock, dall’erotismo sottile infuso dai bellissimi Bang e Debicki e dall’umorismo sornione dei vecchiacci Jagger e Sutherland. Inutile soffermarsi sul discorso tra arte, critica e mistificazione, ne perderebbe di fascino il noir e si rischierebbe di rimanere con un pugno di mosche in mano…

Giuseppe D’Errico

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