Venezia76 – Fuori Concorso: “Seberg”, un film di Benedict Andrews, la recensione

Seberg (id, Usa, 2019) di Benedict Andrews con Kristen Stewart, Jack O’Connell, Margaret Qualley, Zazie Beetz, Yvan Attal, Stephen Root, Colm Meaney, Vince Vaughn, Anthony Mackie, Jade Pettyjohn, Grantham Coleman, James Jordan

Sceneggiatura di Joe Shrapnel, Anna Waterhouse

Biografico, 1h 42’

Voto: 6 su 10

Jean Seberg, la diva triste. Otto Preminger, che nel 1957 la lanciò appena maggiorenne nell’adattamento da George Bernard Shaw Santa Giovanna, per poco non le stroncò la carriera sul nascere, non solo perché rischiò seriamente di bruciarla viva durante le riprese del rogo, ma anche perché in molti accusarono proprio l’acerba Jean di essere stata la causa del fallimento del film. Eppure, quel volto lunare e lo sguardo inquieto seppero farsi manifesto di un disagio che l’attrice americana coltivava interiormente: solo un anno dopo sarà, sempre diretta da Preminger, l’adolescente problematica di Bonjour Tristesse, il celebre melodramma tratto dal romanzo di Françoise Sagan, mentre è del 1960 la consacrazione con À bout de souffle di Jean Luc Godard, che ne fece il volto simbolo della Nouvelle Vague. Presenza scenica sofisticata, una recitazione spontanea, impalpabile, cristallizzata in una filmografia che ne sprecò in gran parte il potenziale, nella sua breve e infelicissima vita (1938 – 1979) la Seberg infilò quattro matrimoni, la perdita di una figlia e decine di tentativi di suicidio; l’ultimo le riuscì: venne ritrovata morta in macchina, dopo più di dieci giorni di latitanza. Lasciò un biglietto tristissimo: “Perdonatemi. Non riesco a vivere più a lungo con i miei nervi”. Aveva 40 anni.

A caricarsi dell’onere di un title role assai periglioso è Kristen Stewart, in questo modesto biopic diretto dall’australiano Benedict Andrews, alla sua opera seconda dopo il ben più coraggioso e radicale Una (2016, inedito in Italia). Il film non ripercorre la carriera della Seberg, ma si concentra su un aspetto poco noto della vita dell’attrice: sul finire degli anni Sessanta, poco prima di iniziare le riprese della Ballata della città senza nome, Jean Seberg finì sotto le mire di sorveglianza illegale dell’FBI a causa della relazione con l’attivista per i diritti civili Hakim Jamal (Anthony Mackie), che la rese un obiettivo dei tentativi del Bureau di arrestare, screditare e denunciare il movimento del Black Power, che pure lei sosteneva con generose donazioni. L’iscrizione nella lista nera del Cointelpro le procurò una terribile campagna persecutoria che si tradusse in un vergognoso sistema di diffamazione a mezzo stampa che ne compromise fatalmente il già delicato equilibrio psichico. La fine, purtroppo, è nota.

La sceneggiatura di Joe Shrapnel e Anna Waterhouse gioca in parallelo tra il dramma dell’attrice incapace di sopravvivere a se stessa e l’indagine segreta che su di lei compie un giovane e ambizioso agente federale pieno di scrupoli umani e morali, interpretato da Jack O’Connell. Il film, romanzando la realtà senza mai tradirla davvero, è all’insegna di un anonimo manierismo che impedisce di porre l’accento sulle questioni più cupe e sgradevoli della storia. Ammantato di glamour d’epoca, con canzoni di Nina Simone a imporre atmosfera e con la tendenza a un facile appiattimento nello stereotipo del maledettismo d’epoca, Seberg si risolve in un’operazione priva di profondità, ma utile a conoscere qualcosa in più su di un’attrice colpevolmente rimossa dalla memoria. Kristen Stewart, pur impegnandosi, non riesce a restituirne né la grazia né la complessità.

Giuseppe D’Errico

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