Venezia76 – Concorso: “Waiting for the Barbarians”, un film di Ciro Guerra, la recensione

Waiting for the Barbarians (id, Italia/Usa, 2019) di Ciro Guerra con Mark Rylance, Johnny Depp, Robert Pattinson, Gana Bayarsaikhan, Greta Scacchi, Sam Reid, Harry Melling

Sceneggiatura di J.M. Coetzee, dal suo omonimo romanzo

Drammatico, 1h 52’

Voto: 7 su 10

Primo film in lingua inglese, ma con capitali italiani (produce la Iervolino Entertainment), del regista colombiano Ciro Guerra, già candidato all’Oscar per L’abbraccio del serpente (2015), Waiting for the Barbarians è la trasposizione del celebre romanzo allegorico omonimo dello scrittore Premio Nobel John Maxwell Coetzee, che ne cura anche l’adattamento cinematografico. Ambientato in un’epoca passata non meglio precisata, è la storia di un magistrato, interpretato magnificamente da Mark Rylance, che mantiene l’ordine in un isolato villaggio di frontiera, al confine di un impero ignoto che da tempo è in lotta con i barbari. La mite e ordinaria quotidianità dell’uomo viene sconvolta dall’arrivo del colonnello Joll, sorta di freak con occhialetti da sole cui presta il volto il camaleontico Johnny Depp, giunto in missione nell’avamposto per riferire all’impero delle attività dei barbari tramite una serie di sadici interrogatori ai prigionieri. Le violenze perpetrate ai danni di una giovane donna barbara spingeranno il magistrato a una presa di coscienza che avrà per lui drammatiche conseguenze.

Il film si fregia della sontuosa fotografia del due volte premio Oscar Chris Menges e di un’impostazione narrativa che rifiuta fieramente ogni spettacolarità. C’è una contemplazione a tratti fin troppo autoindulgente in tutta la prima parte di Waiting for the Barbarians, di contro a una prosecuzione del racconto in cui la crudeltà umana esplode in tutta la sua ferocia, senza per questo indugiare nell’orrore. Quella di Coetzee era una riflessione sul potere e su come esso possa escludere ogni forma di diversità; Guerra plasma le motivazioni dei personaggi trasfigurandole in una meditazione sulle lotte che affliggono la nostra contemporaneità e sul riverbero di antichi totalitarismi.

Se la figura del colonnello Joll è delineata con una certa caricaturalità, complice un attore che ormai da tempo ha perduto qualunque sfumatura drammatica, è invece splendida la costruzione del magistrato senza nome idealista e caritatevole, che trova in Mark Rylance un interprete di rara raffinatezza. Guerra, conscio della grandezza del suo protagonista e forse per rendergli omaggio, apre il film così come fece Spielberg per il suo Il ponte delle spie, e cioè con Rylance impegnato nella codificazione di un messaggio scritto in altra lingua e intento a destreggiarsi tra lapis, piccolissimi foglietti di carta e lente di ingrandimento. In ruoli di contorno compaiono anche Robert Pattinson, nei panni di un aguzzino di Joll, Greta Scacchi in quelli di una popolana di buon cuore, e Harry Melling, l’indimenticabile tronco umano da baraccone di Buster Scruggs dei fratelli Coen, qui soldatino con i sensi di colpa. Il film pecca di personalità, ma è condotto con estremo rigore, suggerisce più che mostrare, propone invece che disporre. Tutti meriti non di poco conto.

Giuseppe D’Errico

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