Saturday Fiction (Lan xi da ju yuan, Cina, 2019) di Lou Ye con Gong Li, Mark Chao, Joe Odagiri, Pascal Greggory, Tom Wlaschiha, Huang Xiangli, Pascal Greggory
Sceneggiatura di Ma Yingli dal romanzo La donna vestita di rugiada di Hong Ying
Spionaggio, 2h 06’
Voto: 7 su 10
Sulla carta Saturday Fiction di Lou Ye sembrerebbe il film dei nostri sogni: una spy-story sentimentale in contesto d’epoca e interpretata da Gong Li (!) nei panni di un’attrice che è anche un agente segreto? Difficile resistere, specie se ci si aggiunge un meraviglioso bianco e nero che ammanta il tutto di cinema classico americano. Eppure l’entusiasmo dura giusto il tempo di appurare che difficilmente si uscirà indenni da una sceneggiatura più che mai labirintica, che Ma Yingli ha tratto dal romanzo “La donna vestita di rugiada” di Hong Ying.
La musa di Zhāng Yìmóu, già vincitrice della Coppa Volpi nel 1992 per La storia di Qiu Ju, è Jean Yu, una grande attrice di teatro che nel dicembre del 1941 fa ritorno a Shanghai, quando la Cina, ancora sotto il dominio giapponese, è terreno di una guerra di intelligence tra i servizi segreti alleati e le potenze dell’Asse. Apparentemente, l’occasione è per calcare nuovamente il palcoscenico con una commedia diretta dal suo ex amante, Saturday Fiction appunto, ma forse non è il suo unico obiettivo. Jean Yu, infatti, è anche una spia del governo americano, sulle orme del padre adottivo che, sin da piccola, la avviò a questa strada. Vorrà forse liberare l’ex marito tenuto prigioniero? O carpire nuove informazioni all’alba dello scoppio della battaglia di Pearl Harbor?
Il titolo originale si riferisce al celebre Teatro Lyceum di Shanghai, dove gran parte della storia è ambientata: tra palco, platea e dietro le quinte, è difficile stabilire chi recita per mestiere o per tradimento in questo complicatissimo gioco di specchi dove realtà e finzione si confondono continuamente, in un’interpretazione decisamente stimolante della messa in scena e dell’intrigo spionistico come due facce di una stessa medaglia tesa al raggiro e alla mistificazione del reale. Doppi e tripli inganni si sprecano, tutti indossano una maschera e i muri hanno pareti sottili pieni di orecchi tesi a intercettare il prossimo messaggio in codice.
Fatta eccezione per il motivetto jazz che accompagna le prove dell’allestimento teatrale, il film è completamente privo di commento musicale, sostituito da tutta una serie di rumori e fruscii che aumentano la sensazione di angoscia per un’intimità costantemente sorvegliata da intercettazioni e vetri oscuri. La levigata fotografia in bianco e nero osa contrasti e sfumature, l’occhio della macchina da presa di Lou Ye indugia sul volto severo ed estatico di Gong Li, vera dama del mistero. Purtroppo la nebulosità dell’intreccio frena ogni possibile coinvolgimento, ma è altrettanto vero che il film è confezionato con indubbia classe, ha dei momenti di enorme suggestione e un gran finale di morte e struggimento in cui, ancora una volta, i ruoli tornano a disperdersi nel dedalo impalpabile dello spettacolo.
Giuseppe D’Errico
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