
Marriage Story (id, Usa, 2019) di Noah Baumbach con Scarlett Johansson, Adam Driver, Laura Dern, Alan Alda, Ray Liotta, Julie Hagerty, Azhy Robertson, Marck O’Brien, Wallace Shawn, Merritt Wever
Sceneggiatura di Noah Baumbach
Drammatico, 2h 16’, Netflix
Voto: 7½ su 10
Il re del mumblecore statunitense e il cinema come elemento taumaturgico per i propri drammi privati. Marriage Story (distribuisce Netflix dal 6 dicembre) è il film con cui Noah Baumbach rilegge, almeno in parte, il proprio divorzio dall’attrice Jennifer Jason Leigh, dopo aver già affrontato il tema col folgorante Il calamaro e la balena (2005), in cui riviveva la sua esperienza di figlio di genitori divorziati. Attraverso la naturale empatia cinematografica che, si spera, ogni buona pellicola dovrebbe essere capace di infondere, il regista attua un transfert di affidamento totale al mezzo per provare a comprendere come un matrimonio possa trasformarsi in un incubo giuridico inevitabilmente concepito per dividere, dove le singole parti si isolano nella propria storia, escludendo quella dell’altra.
Ciò che accade a Charlie (Adam Driver) e Nicole (Scarlett Johansson) è quello che capita, purtroppo, a tante persone: regista teatrale lui, attrice e musa lei, un figlio di sei anni e l’incapacità di proseguire le proprie vite insieme. Charlie vive a New York per portare avanti la sua carriera di genio dell’avant-guarde, Nicole si trasferisce a Los Angeles col bambino per girare una serie tv da protagonista: sarà proprio questa lontananza geografica alla base di una lotta senza esclusione di colpi tra i rispettivi avvocati (Laura Dern per lei, prima Alan Alda e poi Ray Liotta per lui) per la custodia del piccolo.
Un po’ Kramer contro Kramer, un po’ Scene da un matrimonio di Bergman, ma sempre con lo stile urbano e profondamente ironico che caratterizza il regista americano, Marriage Story si sforza di trovare un pizzico di luce nel tunnel del divorzio, la storia d’amore all’interno del crollo dei legami, ma deve anche fare i conti con un tema decisamente trito. Per fortuna Baumbach, oltre a saper dirigere egregiamente i propri attori, è anche uno sceneggiatore di grande precisione: il film vive di splendidi confronti verbali e lunghi monologhi in close-up (ritorna Bergman, ma stavolta è dichiaratamente quello di Persona) magnificamente recitati, con l’effetto di un realismo tanto raggiunto quanto, in definitiva, tradito da piccoli artifici romantici (un taglio di capelli o una scarpa slacciata) per concedere alla coppia protagonista un fondo di speranza. Anche le musiche, ruffiane ma mai invasive, di Randy Newman sono sempre lì a ricordarci che siamo “solo” in un film, a volte aspro e doloroso, altre estremamente divertente (già cult un’invettiva sulla Vergine Maria come modello di madre affidato a una strepitosa Laura Dern), ma sempre pronto a riconciliarsi con lo spettatore in un caldo abbraccio malinconico.
Giuseppe D’Errico
Lascia un commento