Venezia75 – Fuori Concorso: “A Star Is Born”, un film di Bradley Cooper, la recensione

A Star Is Born (id, Usa, 2018) di Bradley Cooper con Lady Gaga, Bradley Cooper, Sam Elliott, Andrew Dice Clay, Dave Chappelle, Alec Baldwin

Sceneggiatura di Eric Roth, Bradley Cooper dalla sceneggiatura “A star is born” di Moss Hart per il film omonimo di Frank Pierson del 1976

Drammatico, 2h 15′, Warner Bros. Pictures, in uscita a ottobre 2018

Voto: 5½ su 10

Ritorna sul grande schermo uno degli archetipi cinematografici per eccellenza, il melodramma canoro A Star Is Born, veicolo emozionale per divi in grande spolvero che, a partire dall’antesignano A che prezzo Hollywood? di George Cukor del 1932, ha sempre avuto nel corso dei decenni la sua ribalta. Prima William Wellman nel 1937, con Janet Gaynor e Fredric March (a ben vedere, l’unica versione ad aver avuto un riscontro commerciale favorevole), poi ancora Cukor col capolavoro del 1954, massacrato al montaggio dopo il fallimento della prima proiezione e punto di non ritorno per la carriera di un’incontenibile Judy Garland; neanche una fuoriclasse come Barbra Streisand, nel 1976, riuscì a fare meglio di lei.

54058La struggente storia d’amore tra il pigmalione autodistruttivo e l’aspirante vedette di talento difficilmente potrà ripetere i fasti raggiunti in passato, ma la vicenda è talmente universale da non conoscere pensionamento: erano anni che si pensava di riportarla in vita, anche con Clint Eastwood alla regia e la popstar Beyoncé. L’ha spuntata invece Bradley Cooper, l’attore de Il lato positivo e American Hustle, che riadatta proprio il copione del film di Frank Pierson del ’76 per il suo esordio dietro alla macchina da presa. Ovviamente riserva per sé il ruolo del rocker alcolizzato e tossicodipendente (che, però, si chiama Maine come James Mason nel film di Cukor), rivelando anche inaspettate doti vocali, a dispetto di una recitazione che sguazza nello sfascio del personaggio. Ad affiancarlo c’è nientemeno che Lady Gaga, istrionica divinità della musica contemporanea – non a torto – nella sua prima vera occasione da attrice, se escludiamo alcuni divertiti cameos qua e là e l’interpretazione vampiresca nella quinta stagione di American Horror Story, che pure le fruttò un incredibile Golden Globe.

Sulla carta, insomma, sembrerebbe la ricetta infallibile per il successo. E invece, dopo un inizio promettente con Gaga che canta “La vie en rose” in un locale di drag queen e la tenerezza di un corteggiamento tra disperati, il film inizia dolcemente a naufragare in un mare di noiosi stereotipi su maledettismo e gelosie artistiche. Che l’archetipo abbia raggiunto il suo tramonto? Difficile dirlo. Sta di fatto che, nel 2018, siamo ancora fermi ai duetti davanti a folle oceaniche e alla figuraccia durante il ritiro di un premio. Nulla in contrario, ma tutto decisamente kitsch e datato, senza contare la corretta banalità registica e la rielaborazione pressoché pari a zero di uno script più che quarantennale, con giusto qualche ammicco retorico alla reale scalata verso il successo della sua concitata protagonista.

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L’amore bigger than life che infiammava gli occhi di Judy Garland e James Mason viene qui svuotato della sua follia per essere ridotto a piatta narrazione da fotoromanzo hollywoodiano, le liti furibonde e travolgenti tra la Streisand e Kris Kristofferson diventano ora imbarazzanti battibecchi tra le mura di una lussuosa toilette sul tono “sei brutta, sei stronzo”, e non c’è mai la magia del genere né tantomeno la giusta intensità. Alla fine, i soli momenti degni d’interesse restano quelli in cui Lady Gaga apre bocca per dar voce al suo vero talento, quello canoro, sebbene si percepisca continuamente il suo patimento nei confronti dell’unica e sola “the nose” dello star system americano, che, inutile precisarlo, era anche un’attrice insuperabile. L’interpretazione tanto attesa di Gaga, che avrebbe dovuto lavorare in sottrazione invece che essere lasciata a briglia sciolta dal suo regista, comunque non è disdicevole e le si riconosce un impegno indefesso che, pur tra mille limiti, porta avanti l’intero carrozzone.

A discolpa di Cooper e della sua buona fede, c’è da dire che questo suo A Star Is Born non voleva essere nulla di diverso da ciò che è, ossia uno straripante e strappalacrime polpettone con canzoni. Sotto quest’aspetto l’operazione è salva, e almeno la trainante “Shallow“, una ballad che mantiene i brividi promessi, resterà a futura memoria musicale.

Giuseppe D’Errico

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