Silence (id, Usa, 2016) di Martin Scorsese con Andrew Garfield, Adam Driver, Liam Neeson, Tadanobu Asano, Ciaràn Hinds, Issei Ogata, Shinya Tsukamoto, Yoshi Oida, Yosuke Kubosuka
Sceneggiatura di Jay Cocks e Martin Scorsese, dal romanzo “Silenzio” di Shûsaku Endô (Ed. Rusconi)
Drammatico, 2h 41’, 01 Distribution, in uscita il 12 gennaio 2017
Voto: 9 su 10
“Il Cristianesimo è basato sulla fede, ma se si studia la sua storia si capisce che c’è stato un continuo processo di adattamento, vissuto in mezzo a tante difficoltà, per poter far fiorire la fede. È un paradosso che può essere anche estremamente doloroso: perché credere e dubitare sono antitetici”. Da questa lacerante dicotomia prende piede l’ultimo sofferto lungometraggio di Martin Scorsese, Silence, un viaggio all’interno delle certezze religiose di un uomo di Dio nel Giappone degli shogun, e un dramma spirituale sul silenzio assordante e spietato del Creatore verso le sofferenze umane.
Dal romanzo omonimo di Shûsaku Endô, pubblicato nel 1966 e definito tra i migliori del XX secolo, il grande regista newyorkese fa proprio un tema presente nella sua vita da sempre: la religiosità, intesa non tanto come mero culto dottrinale, quanto interrogativo problematico col quale l’uomo arriva, prima o poi, a dover fare i conti. Argomento scomodo – che d’altronde Scorsese aveva già sviluppato nel film scandalo L’ultima tentazione di Cristo (1988) e, attraverso un’ottica differente, in Kundun (1997) – che ha portato a una genesi produttiva dell’opera assai impervia, protrattasi per circa un ventennio e resa possibile solo dopo il grande successo di The Wolf of Wall Street.
L’insondabile presenza di Dio nella condizione umana passa attraverso la discussa vicenda di padre Christovao Ferreira (Neeson), incaricato dell’ordine dei Gesuiti in Giappone per diffondere il cristianesimo, che nel 1633 rinnegò il proprio credo e si convertì al buddismo. Silence è ambientato tra il 1640 e il 1644, oltre cento anni dopo l’arrivo dei primi missionari cristiani in Oriente: era un’epoca di grande precarietà politica e, se per decenni l’attività degli evangelizzatori venne bene accolta, con l’affermarsi del periodo Tokugawa essi iniziarono a essere percepiti come una minaccia per il processo di unificazione della nazione. Nonostante un editto di espulsione, molti padri continuarono in segreto il loro ministero, dando inizio a un’aberrante persecuzione durante la quale i cristiani erano costretti a scegliere se abiurare alla loro fede o essere condannati a morte solo dopo atroci torture.
Pur di mettere a tacere quella che ritengono una vergognosa calunnia, due giovani missionari portoghesi, padre Sebastian Rodrigues (Garfield) e padre Francisco Garupe (Driver), partono alla ricerca del loro mentore scomparso, raggiungendo il Giappone ed esercitando il loro magistero apostolico in un villaggio di perseguitati (tra loro, anche il grande regista di Tetsuo, Shinya Tsukamoto). Costretti alla cattività per sfuggire alle condanne dello shogunato, i due predicatori dovranno affrontare un calvario irto di pericoli fisici e minacce spirituali; specie padre Sebastian sarà messo costantemente alla prova dagli eventi, fino a trovarsi costretto a venire più volte a patti con la propria fede, saggiandone l’incrollabile fermezza ma anche il cieco mutismo di fronte a inumane sofferenze.
È in questo frangente che la riflessione di Silence irrompe in tutta la sua deflagrante potenza, nel rimarcare le fasi di un processo di meditazione di volta in volta ridiscusso, approfondito, letteralmente martoriato, fino a giungere a un doloroso paradosso: dubitare può portare a una profonda solitudine, ma se il dubbio coesiste con una fede vera e costante, può portare a un senso di intensa e gioiosa comunione. Un segno di debolezza, quindi, diventa un sacrificio d’amore.
Al di là del messaggio ultimo di un racconto che apre a mille preziose suggestioni, il film si avvale di un rigore narrativo assoluto che si abbina a una qualità della visione tra le più trascendenti e, al contempo, controllate degli ultimi tempi, specie se si considera la cifra stilistica notoriamente funambolica di Martin Scorsese. Tutta l’opera è pervasa della gravitas del tema, ma ciò non inficia lo splendore di una messa in scena straordinaria (il set in Taiwan è ricostruito da Dante Spinotti, l’eccezionale fotografia tra il pittorico e il naturalistico è di Rodrigo Prieto, il montaggio dell’esperta e fraterna Thelma Schoonmaker) o l’urgenza di una storia appassionante, che continua a parlarci ancora da vicino.
Definito il testamento spirituale di Scorsese, la sua opera meno riconoscibile, la sua più personale, di gran lunga la sua più ostica e meditativa; certamente Silence segna un punto di non ritorno nella mirabolante filmografia di un cineasta che ancora non ha smesso di farsi (e farci) stimolare dalla macchina cinematografica.
Giuseppe D’Errico
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