“Serenity – L’isola dell’inganno”, un film di Steven Knight, la recensione

Serenity – L’isola dell’inganno (Serenity, Usa, 2019) di Steven Knight con Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Jason Clarke, Diane Lane, Djimon Hounsou, Jeremy Strong

Sceneggiatura di Steven Knight

Thriller, 1h 46’, Lucky Red, in uscita il 18 luglio 2019

Voto: 6 su 10

Isola lontana. Pescatore alcolizzato. Tonno imprendibile. Matura ninfomane. Gatto che scappa. Bagno nudo nell’oceano. Omino in giacca e valigetta. In questo posto tutti sanno tutto di tutti. Uomo nero e saggio. Bionda fatale. Marito bruto. Figlio da salvare. Dieci milioni di dollari. Delitto in mare… Questo vertiginoso ma ragionato catalogo di stereotipi da vecchio cinema anni Ottanta è, invero, alla base della sceneggiatura di Serenity, uno dei più grossi flop della stagione americana, scritto e diretto da Steven Knight, autore di peso (suoi gli script de La promessa dell’assassino di Cronenberg e di Allied di Zemeckis) che torna alla regia a sette anni di distanza dall’acclamato esercizio di stile in unità aristoteliche Locke.

Come ogni film maledetto che si rispetti – dopo i primi screening col pubblico, la distribuzione si è arresa a cancellare ogni tipo di promozione, con grande scherno di cast e regista – anche Serenity possiede un fascino tutto suo, un’attrattiva da opera nata appositamente per scontentare tutti, secondo un registro narrativo assolutamente folle che, oltre alla ricerca certosina dei più vieti luoghi comuni del genere noir, ha l’ambizione di voler essere una riflessione universale sull’umano e il post-umano. Verrebbe da ridere, e non sono pochi i momenti in cui ci si ritrova a sghignazzare imbarazzati durante la visione di questa sudaticcia bizzarria d’autore fuori tempo massimo; eppure, bisogna riconoscere a Steven Knight e ai suoi interpreti, un Matthew McConaughey più rauco e bisunto che mai e una Anne Hathaway penosamente fuori parte in biondo platino, una certa dose di sprezzo per il ridicolo, e quindi di coraggio non comuni.

Senza poter rivelare troppo di una trama che parte tra echi di Hemingway e Chandler per poi contorcersi in un twist “ai confini della realtà”, bisogna ammettere che la costruzione stereotipata è tale per precisa scelta, e in fin dei conti risulta sensata rispetto all’obbiettivo finale. Ciò non toglie che Serenity, nella sua forma giustamente sbagliata, possa irritare o, peggio, incattivire; è un film che non teme di lasciarsi odiare, che è consapevole della propria esagerazione, ma proprio in quanto tale possiede un’eccentricità rarissima per il mainstream hollywoodiano. Serenity è il guilty pleasure della nostra estate cinematografica.

Giuseppe D’Errico

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