The Only Living Boy in New York (id, Usa, 2017) di Marc Webb con Callum Turner, Jeff Bridges, Kate Beckinsale, Pierce Brosnan, Cynthia Nixon, Kiersey Clemons, Tate Donovan, Wallace Shawn, Debi Mazar
Sceneggiatura di Allan Loeb
Commedia, 1h 28′
Voto: 5½ su 10
Bisogna ammettere che si prova una certa riluttanza verso film come The Only Living Boy in New York, e non perché l’ultimo lavoro di Marc Webb (500 giorni insieme) sia realizzato male, tutt’altro. Però è decisamente frustrante assistere all’ennesima formula della commedia intellettuale newyorkese i cui personaggi sembrano struggersi di insicurezze grevemente borghesi dall’alto della loro agiatezza. Ancora una volta, lo spettacolo che ci viene proposto vive tra le strade di un’abbagliante Manhattan dai colori autunnali, teatro delle idiosincrasie da soap opera di un manipolo di artistoidi, o sedicenti tali o che ambirebbero tanto a esserlo, incapaci di comportamenti umanamente accettabili.
Protagonista della storia è Thomas (Turner), un ragazzo pensoso e imbronciato che passa le giornate tra musei e librerie d’antiquariato, nella speranza di far colpo sull’amica (Clemons) della quale è innamorato. Suo padre (Brosnan) è un affermato editore che gli procura appuntamenti di lavoro a cui non si presenta, sua madre (Nixon) è una depressa bipolare che rimpiange Warhol, e lui si sente sempre meno compreso da loro, tanto da lasciare lo splendido appartamento nell’Upper East Side per andare ad abitare (coi soldi dei genitori) nel Lower West. Empatizziamo con lui? E come potremmo?
I piccoli drammi di Thomas, però, ci vengono raccontati dalla voce raschiata e accomodante di Jeff Bridges, suo vicino di casa e ampio dispensatore di consigli, citazioni colte e rivelazioni inaspettate. E a Bridges, è inutile, come si fa a resistere? Nel frattempo Thomas instaura una strana relazione sessuale con l’amante (Beckinsale) di suo padre, forse la ama, forse è pentito: questo ragazzo è un vero disastro! Ma non l’ha mai visto Il laureato?
New York come simulacro di nevrosi fuori tempo massimo, un elenco di perle di saggezza da appuntarsi (“ai migliori mancano le certezze mentre i peggiori rigurgitano passioni”, molto vero), di nomi di locali, di titoli di libri e di canzoni. A Marc Webb sembra andare bene così, gli basta impostare la sua opera su un registro fortemente codificato, imbottirla di stereotipi sulle ambizioni poetiche disilluse, sul talento nascosto, sul genio e la sregolatezza, per poi consolare il protagonista in un caldo abbraccio di piaggeria, giacché gli adulti fecero ben di peggio alla sua età. Ovviamente a nessuno deve mai mancare un bicchiere di wiskey in mano, né l’atmosfera deve essere esente dal fumo delle sigarette bruciate tra una discussione e l’altra, meglio ancora se tra gli invitati a cena c’è il drammaturgo Wallace Shawn.
Insomma, il film è anche grazioso ma costruito con la consapevolezza di dover esserlo ad ogni costo, col suo jukebox nostalgico che deve necessariamente fare sfoggio del retaggio culturale di fine anni Sessanta del mentore Bridges, sempre pronto a citare ora Lou Reed ora Bob Dylan, e il titolo del film e solo uno degli omaggi ai mitici Simon & Garfunkel. Così facendo, però, The Only Living Boy in New York finisce per ritrarre un mondo fossilizzato e infinitamente lontano dalla concretezza del reale, e non bastano una regia elegante e un buon cast per sopperire all’evanescenza di tanta sofisticazione.
Giuseppe D’Errico
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