The Birth of a Nation (id, Usa, 2016) di Nate Parker con Nate Parker, Armie Hammer, Aja Naomi King, Mark Boone Jr., Colman Domingo, Aunjanue Ellis, Gabrielle Union, Penelope Ann Miller, Jackie Earle Haley
Sceneggiatura di Nate Parker
Biografico, 1h 59’, 20th Century Fox, in uscita il 17 gennaio 2017
Voto: 7 su 10
Ciclicamente, quello degli schiavi d’America è un genere cinematografico che ritorna, così come l’Olocausto o l’11 settembre, tragedie storiche incalcolabili che la settima arte ha raccontato sotto più fronti e con alterni risultati, fino a farne una categoria, un’etichetta. Quello dell’oppressione del popolo afroamericano da parte dei bianchi nella metà dell’Ottocento è un tema sempre caldo, specie se in patria le tensioni razziali non accennano a diminuire. Proprio per questo motivo, un film appassionato e viscerale come The Birth of a Nation può veicolare un messaggio ambiguo e pericoloso, in quanto rischia di alimentare un odio che ha radici profonde, ma che andrebbe analizzato e oggettivato con maggiore lucidità e meno concitazione spettacolare.
Il film, un one man show fin troppo narcisistico di Nate Parker che lo ha scritto, prodotto, diretto e interpretato, ha vinto tra le polemiche l’ultimo Sundance Film Festival ed è quotatissimo per i prossimi premi Oscar, anche se la recezione nelle sale non è stata delle migliori (in Italia uscirà a Gennaio prossimo). Il titolo riprende provocatoriamente quello omonimo del classico del muto del 1915 di David W. Griffith, mutatis mutandis: in quel caso si celebrava l’operato eroico del Ku Klux Klan, mentre 101 anni dopo sono gli schiavi neri a ribellarsi all’egemonia dei padroni, riprendendo la storia vera di Nat Turner (Parker), un predicatore che guidò una rivolta per la liberazione degli afroamericani in Virginia contro i soprusi dei latifondisti, prima della Guerra Civile.
Emozionante e trascinante The Birth of a Nation lo è per davvero: già è difficile non rimanere coinvolti quando di mezzo ci sono i diritti calpestati di un intero popolo, figurarsi poi se a capo della sommossa vi è un ex schiavo che abbiamo visto crescere anagraficamente nel racconto, da quando viene indicato come un prescelto in tenera età, fino a una presa di coscienza che mette in discussione e ristabilisce le proprie certezze verso Dio e verso il prossimo. Ama il tuo nemico, dicono le Scritture, anche se ti colpisce; ma quando il messaggio evangelico si trasforma in uno strumento di vendetta, il sangue versato ci riporta in maniera inquietante alla nostra attualità, non solo quella delle faide razziali ma soprattutto alle guerre sante, combattute in nome della religione.
Sotto quest’ottica, il film è estremamente violento e radicale nella sua rozza interpretazione dell’accaduto, con spreco di grand guignol e intermezzi onirici francamente evitabili. D’altro canto, ci troviamo di fronte a una super produzione indipendente coltivata testardamente per anni dal suo autore, messa insieme obbedendo ai più rodati crismi del cinema americano di massa: la scrittura alterna momenti di vibrante tensione drammatica (la storia d’amore con la schiava Cherry Ann, interpretata da Aja Naomi King, il rapporto contrastato che lega Nat al proprio padrone bianco divorato dall’alcol, che ha il volto di Armie Hammer) ad altri di puro imbarazzo (è ridicolo Nat che richiama all’ordine alcuni suoi fedeli attorno a un falò per metterli al corrente che la Bibbia non giustifica la schiavitù, animandoli alla lotta), come da migliore tradizione hollywoodiana; la confezione è estremamente curata, ai limiti della patina, con alcune sequenze difficilmente dimenticabili, complice l’epocale brano di Billie Holiday Strange Fruit inserito ad hoc in una lunga, straziante inquadratura. Su tutto giganteggia la performance furente di Nate Parker, un protagonista di notevole statura scenica che, come regista, porta a segno uno spettacolo entusiasmante pur nella evidente scrupolosità verso le regole, coraggioso nella sua spietata e sacrosanta condanna, ma anche compiaciuto nell’esaltazione del sadismo e fin troppo corretto formalmente per non perderne in carica sovversiva.
Come tutti i film che fanno discutere, The Birth of a Nation è senz’altro un appuntamento cinematografico da non perdere, ma quasi rivalutiamo il distacco di un’opera comunque sopravvalutata e dalla retorica strisciante come 12 anni schiavo di Steve McQueen.
Giuseppe D’Errico
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