American Pastoral (id, Usa, 2016) di Ewan McGregor con Ewan McGregor, Jennifer Connelly, Dakota Fanning, David Strathairn, Uzo Aduba, Valorie Curry, Molly Parker, Rupert Evans, Samantha Mathis, Hannah Nordberg, Ocean James
Sceneggiatura di John Romano, dal romanzo Premio Pulitzer “Pastorale americana” di Philip Roth (ed. Einaudi)
Drammatico, 1h 48’, Eagle Pictures, in uscita il 20 ottobre 2016
Voto: 6 su 10
Come si porta sul grande schermo uno dei romanzi più importanti dell’età contemporanea? Difficile dirlo ma, certo, servirebbe l’estro di un grande autore. Ciò che non è Ewan McGregor, per la prima volta dietro alla macchina da presa per l’improbo compito di dirigere la trasposizione cinematografica di Pastorale americana di Philip Roth, premio Pulitzer nel 1998 e aura mitica a renderlo inavvicinabile. L’attore protagonista di Trainspotting e Moulin Rouge, infatti, accettò di dirigere il progetto solo sulla scorta della sceneggiatura di John Romano, a suo dire estremamente commovente, leggendo solo in seguito il libro. Ma neanche Romano è un grande sceneggiatore (nel suo carnet, Come un uragano e The Lincoln Lawyer). Con tali premesse sarebbe stato un errore avere aspettative troppo alte, infatti American Pastoral non è il grande film che poteva essere e dispiace che una simile occasione sia stata così banalmente sciupata.
La fine del sogno americano è raccontata attraverso il personaggio di Seymour Levov (lo stesso McGregor), detto “lo svedese” per via del suo bell’aspetto nordico, nonostante sia nato e cresciuto a Newark, in New Jersey, da famiglia ebrea. Siamo negli anni ’50, Seymour è un campione di football, eredita l’industria tessile del padre e sposa una ex reginetta di bellezza cattolica, Dawn Dwyer (Connelly). Insieme avranno una bambina, Merry (James a 8 anni, Nordberg a 12, Fanning a 16), che balbetta fin dalla tenera età. La vita sembra sorridere a Seymour, nonostante la figlia continui a mostrare segni di squilibrio emotivo, fino a quando, con la guerra in Vietnam che infuria e i moti razziali che distruggono il centro di Newark, un evento famigliare sconvolgerà per sempre le esistenze di tutti.
Partire da un materiale narrativo così denso e significativo per ottenere un compitino così piatto, convenzionale ed esanime non è un buon risultato. McGregor regista pecca di incisività, mentre l’attore è perennemente attonito (meglio di lui sia la splendida Jennifer Connelly che la misurata Dakota Fanning), ma è soprattutto la scrittura a cedere più volte il passo all’anonimia più totale, incapace di sfruttare l’allegoria sugli Stati Uniti e gli abissi di una colpa che non trova ragioni certe nell’operato di un padre. Sarebbe una storia meravigliosa e struggente ma, chissà come, viene lasciata implodere in una narrazione canonica, cauta, controllata, a volte addirittura noiosa. La si segue, ma mai con vera passione; ne si apprezza il professionismo della messa in scena, ma se ne rimpiangono le potenzialità mal sfruttate. Allo stesso tempo, non stupisce che Roth abbia apprezzato il film, giudicandolo la migliore delle trasposizioni da un suo romanzo: la fedeltà alla trama è stata ampiamente rispettata e il senso tragico viene restituito, sebbene smorzato della sua forza. Non ci voleva poi molto a fare meglio di Robert Benton (La macchia umana, dal libro omonimo), Isabel Coixet (Lezioni d’amore, da L’animale morente) e Barry Levinson (The Humbling, da L’umiliazione). L’autore che gli renderà davvero giustizia, però, lo stiamo ancora aspettando.
Giuseppe D’Errico
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