Rocketman (id, GB/Usa, 2019) di Dexter Fletcher con Taron Egerton, Richard Madden, Jamie Bell, Bryce Dallas Howard, Gemma Jones, Steven Mackintosh, Matthew Illesley, Kit Connor, Tate Donovan
Sceneggiatura di Lee Hall
Musical/Biografico, 2h 01’, 20th Century Fox Italia, in uscita il 29 maggio 2019
Voto: 8 su 10
Non un semplice biopic ma musical in piena regola: è Rocketman, il film su vita, infanzia e prime esperienze di Reginald Dwight, in arte Elton John, che l’attore e regista britannico Dexter Fletcher, già subentrato in extremis a Bryan Singer alla direzione del sopravvalutato Bohemian Rhapsody, ha dedicato al baronetto del pop inglese. Rispetto al deludente conformismo del film su Freddie Mercury, però, Rocketman si fa preferire per creatività stilistica, originalità narrativa e, cosa fondamentale, per l’assoluta libertà con cui fonde realtà e immaginazione in un racconto volutamente fantasmagorico e trascinante, senza per questo tradire mai la verità dei fatti.
Figlio unico decisamente poco amato dai genitori, bambino prodigio del pianoforte, giovane promessa della scena rock anni Settanta, arriva al successo col fuoco sotto ai piedi per poi bruciarsi tra amanti traditori, droghe ed eccessi vari, fino alla riabilitazione in un centro di recupero dal quale uscirà ripulito e “ancora in piedi”: se l’iter biografico obbedisce fedelmente al canone della star maledetta in cerca di redenzione, l’impostazione da musical stravolge l’andamento lento della convenzione, portando in scena l’”universo Elton John” attraverso le sue canzoni più celebri, da Goodbye Yellow Brick Road a Saturday Night’s Alright for Fighting, passando per Pinball Wizard, Tiny Dancer, Your Song, Bennie and the Jets, Don’t Let the Sun Go Down on Me, Sorry Seems to Be the Hardest Word fino al brano che dà il titolo al film, adattate miracolosamente alle esigenze narrative e cantate e coreografate in numeri davvero eccezionali. L’esplosione di luci e colori, l’irruzione di soluzioni sceniche felicissime e la presenza carismatica di un protagonista, Taron Egerton, dal talento davvero entusiasmante, premiano il coraggio di Fletcher che, rinunciando alla facile presa emotiva e nostalgica del brano in sé, porta il film, e con lui lo spettatore, all’interno di un caleidoscopio di gioie e dolori che pulsa di emozioni vere e di umanità.
Non manca qualche scivolone frettoloso (il matrimonio con Renate Blauel o il momentaneo allontanamento dall’amico fraterno Bernie Taupin, suo paroliere, interpretato dall’ottimo Jamie Bell), ma onore al merito di Elton John, mente del progetto tanto da ricoprire le vesti di produttore, che ha evitato la banale agiografia divistica senza timore di raccontarsi con tutte le sue fragilità, i suoi traumi, le sue dipendenze; ne viene fuori il ritratto di una star egocentrica e problematica, segnata da un incolmabile vuoto affettivo famigliare (completamente arido il padre, che ha il volto inasprito di Stephen Mackintosh, inaccessibile e svampita la madre, una Bryce Dallas Howard da manuale), in costante conflitto col suo aspetto esteriore e la sua sessualità, con un grande bisogno di amare e di essere amato. Il film finisce lì dove era iniziato, in rehab, durante una seduta di gruppo, prima con i pazienti del centro, poi con i propri demoni interiori, ma starà ai titoli di coda rassicurarci su quanto il nostro eroe sia ormai sano come un pesce, felicemente accasato (col suo manager David Furnish) e perfino padre di due bambini. Una piccola concessione moralista in un racconto che, fino ad allora, non aveva concesso sconti, ma va bene così: nel frattempo abbiamo ancora occhi e orecchi immersi in una strepitosa riproposta di I’m still standing.
Giuseppe D’Errico
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