Still Alice (id, Usa, 2014) di Richard Glatzer e Wash Westmoreland con Julianne Moore, Kristen Stewart, Alec Baldwin, Kate Bosworth, Hunter Parrish
Sceneggiatura di Richard Glatzer e Wash Westmoreland, dal romanzo omonimo di Lisa Genova
Drammatico, 1h 39′, Good Films, in uscita il 22 gennaio 2015
Voto: 7½ su 10
Nel dicembre del 2011, ai registi Richard Glatzer e Wash Westmoreland (coppia di fatto anche nella vita: sono quelli del piccolo cult del Sundance 2006 Non è peccato) venne offerta la possibilità di misurarsi con il romanzo di Lisa Genova intitolato “Still Alice”, incentrato su una brillante insegnante universitaria di linguistica che, a cinquant’anni, viene colpita da una rara forma di sindrome di Alzheimer. Per un crudele scherzo del destino, allo stesso Glatzer era stata diagnosticata da poco la SLA. Due malattie diverse e quasi agli antipodi tra loro, perché la prima devasta la mente e risparmia il corpo, al contrario della seconda che blocca il fisico ma non l’intelletto, ma entrambe accomunate dall’irreversibilità e dall’isolamento dal mondo esterno.
Nel male, però, è anche bello trovare del bene, e ci piace pensare che questa terribile coincidenza abbia portato a un film onesto e dignitoso, nella più letterale accezione del termine, come quello interpretato da Julianne Moore, straordinaria e indimenticabile protagonista di Still Alice. La splendida rossa newyorkese fa vibrare ogni più piccola particella del suo animo nel ruolo della donna realizzata, della moglie innamorata (di Alec Baldwin) e della madre di famiglia di tre figli ormai adulti (Bosworth, Parrish e Stewart) che, durante un convegno, resta per la prima volta senza parole. Seguiranno altre piccole dimenticanze, poi dei vuoti di memoria all’aperto, la difficoltà a riconoscere le persone che la circondano. Crede possa trattarsi di tumore al cervello, invece è Alzheimer precoce ed ereditario. E, di fronte a un destino che fatica ad accettare, Alice prende una drastica decisione sul suo futuro.
Raccontato in punta di sentimenti, Still Alice si dipana quasi esclusivamente secondo il punto di vista della protagonista, attraverso la sua presa di coscienza che, col tempo diventa accettazione di un morbo mortificante, imbarazzante e alienante, capace di disintegrare l’individuo privandolo dei ricordi e degli affetti. Seguiamo, così, Alice nel suo percorso graduale di “svuotamento”, con i famigliari lasciati sullo sfondo (diversamente da altre opere analoghe come Away from Her e Amour) e tutte le insicurezze del caso ad immobilizzarla. Assecondando questa soggettività narrativa, la regia resta ai limiti della freddezza, concedendo però alle emozioni di rivelarsi in maniera delicata e non meno efficacemente rispetto a una trattazione più melodrammatica. Ogni retorica è bandita anche grazie alla performance oltremodo sublime della Moore, una grande attrice capace di “vivere” la malattia in modo palpabile, lavorando di misura e sottrazione: l’interpretazione è toccante, è devastante, è da Oscar.
Giuseppe D’Errico
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