“Quello che non ho”, Neri Marcorè in una miscela esplosiva tra Pasolini e De André

QUELLO CHE NON HO

con Neri Marcorè
liberamente ispirato all’opera di Pier Paolo Pasolini
e con Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini (voci e chitarre)
canzoni di Fabrizio De Andrè
arrangiamenti musicali Paolo Silvestri
collaborazione alla drammaturgia Giulio Costa
drammaturgia e regia Giorgio Gallione

Andato in scena al Teatro “Il Celebrazioni” di Bologna.

Voto: 9 su 10

“Perché la nostra vita è dominata da scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?”, queste sono le parole che introducono il film documentario “La rabbia” di Pier Paolo Pasolini e questi gli interrogativi ai quali, uno dei più grandi letterati del Novecento ha cercato di rispondere con le sue poesie, i suoi romanzi, i suoi film. Insomma, tutta la sua opera.
Neri Marcorè, che conosciamo come ottimo imitatore, ha spesso fornito prova della sua voglia di approfondire le radici culturali del nostro Paese e, nello spettacolo “Quello che non ho” andato in scena al Teatro “Il Celebrazioni” di Bologna, ha fuso due dei più grandi pensatori del nostro tempo e li ha resi parte di un discorso complesso, che inizia da lontano e arriva fino ai giorni nostri, attraverso un sublime esempio di teatro-canzone.

Dopo il successo dello spettacolo dedicato a Giorgio Gaber, Neri Marcorè decide di affrontare due mostri sacri della musica e della letteratura italiana: Pier Paolo Pasolini e Fabrizio De André. In un’alternanza tra le parole del letterato bolognese, tratte dagli “Scritti Corsari” del 1973 e dal suo film documentario “La Rabbia” del 1963, e una selezione di testi del grande cantautore Genovese che, con il suo desiderio di musicare temi scomodi, storie di emarginati, di ribelli, si compenetra alla perfezione con il pensiero di Pasolini. Musica e parole si alternano in un rimbalzo continuo tra magia poetica e riflessione storica.

Sempre in equilibrio nell’affrontare temi scottanti e riflessioni profonde sul nostro tempo, sulle nostre idiosincrasie alternandole con venature ironiche, divertenti e allegre, l’attore marchigiano intrattiene e fa ridere senza mai però perdere di vista l’obiettivo: quello di instillare un piccolo seme nello spettatore con la speranza che la curiosità e la voglia di conoscere porti ad approfondire le tematiche affrontate. Ad aiutarlo, in questo bellissimo viaggio, ci sono Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini, tre bravissimi artisti che non solo accompagnano Marcorè, in modo eccelso, con le loro voci e i loro strumenti, ma interagiscono con lui nello spettacolo creando una piacevole dinamica attraverso la loro fisicità.

Questa è una recensione che potrebbe essere fatta solo con un collage di citazioni dei due artisti, perché sono convinta che nessuno meglio di loro sia riuscito a sintetizzare argomenti come la guerra, il razzismo, il mostro del consumismo che ci sta divorando, l’intolleranza verso altre culture e le diversità in generale. E così Marcorè passa al vaglio brani come, “Dolcenera” e “Khorakhanè”, entrambe tratte dall’album “Anime Salve”. La prima canzone racconta l’alluvione che ha sommerso Genova nel ’70 e la storia di matto innamorato che aspetta una donna; mentre l’altra è dedicata a una tribù rom musulmana di origine serbo-montenegrina. Si passa poi a brani come “Quello che non ho”, che dà anche il titolo allo spettacolo, “Se ti tagliassero a pezzetti”, “Don Raffaè”, “Volta la carta”, “Una storia sbagliata”, brano dedicato a Pier Paolo Pasolini e alla sua tragica scomparsa avvenuta nel 1975.

Queste e molte altre canzoni di Faber sono intervallate alle cogenti parole del letterato che registra una situazione politica e civile sconfortante. Si parla del “Dio capitalismo” che induce a pensare il consumo come un rito e la merce, un feticcio, ma, ammonisce lo scrittore: “I beni superflui rendono superflua la vita”; ci s’interroga sul genocidio culturale di cui siamo vittime e carnefici; sull’immenso danno ambientale che stiamo arrecando attraverso le scorie tossiche che produciamo ogni giorno, creando delle vere e proprie isole di plastica, tanto che, afferma Pasolini, non si deve più parlare, se vogliamo salvarci, di “sviluppo sostenibile” ma di “Decrescita”; sull’incapacità dei nostri politici di governare perché più protesi a detenere il potere, tanto che governare sembra una spiacevole complicanza per raggiungerlo; sui popoli che stiamo distruggendo, a cui abbiamo rubato tutto. Come il Congo, terra che stiamo prosciugando per via del “Coltan”, minerale necessario per costruire i cellulari ma che avevamo già saccheggiato di avorio, oro e tutto quello che il loro suolo potesse offrire; e allora viene da chiedersi: ma come ci siamo ridotti così? Marcorè risponde usando le parole di Hemingway: “Prima a poco a poco, poi all’improvviso”.

È talmente importante quello che si ascolta, sia attraverso le parole sia con la musica che trovo molto pertinente la scelta, del regista Giorgio Gallione, di una scenografia minima, essenziale – fatta di drappeggi grinzosi, ruvidi che incorniciano la scena e di numerose sedie sparse ovunque – ma anch’essa parte del discorso. Nulla di ciò che viene usato è semplicemente un oggetto inerme, ogni cosa prenderà vita, si animerà per diventare un rimarcatore del pensiero. Così sarà anche per il gioco di luci, molto suggestivo, di Aldo Mantovani.

Ma, in tutto questo sfacelo, c’è ancora qualcosa di bello, e siamo noi. È il nostro meraviglioso paese, ricco di bellezza che dobbiamo tornare ad amare e accudire. Perfino Bill Gates sosteneva che “se anziché la Microsoft avesse avuto Gli Uffizi sarebbe stato molto più ricco”.
Un anelito di speranza ci accompagna nel finale ricordandoci di quanta magnificenza e bellezza potremmo godere, se solo ce ne rendessimo conto e sapessimo valorizzarla. Le note che chiudono lo spettacolo sembrano un monito per un’urgenza alla riflessione. Chiede De André sulle note di “Canzone per l’estate”: “Com’è che non riesci più a volare”?

Amelia Di Pietro

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