“Le origini del male”, più Scooby Doo che horror demoniaco

Le origini del male (The Quiet Ones, Usa, 2014) di John Pogue con Jared Harris, Olivia Cooke, Rory Fleck-Byrne, Erin Richards, Sam Claflin

Sceneggiatura di Oren Moverman, John Pogue, Craig Rosenberg

Horror, 1h 35′, Key Films, in uscita il 2 luglio 2014

Voto: 3 su 10

Non è estate al cinema senza un brutto horror. Quest’anno tocca a Le origini del male, possession movie naturalmente “ispirato a fatti realmente accaduti” (sic!), che punta tutto sulla ridicola trovata di mostrare filmati d’epoca di giovani indemoniati nella speranza che vengano presi per autentici. Nulla di più risibile, giacché i filmini amatoriali in bianco e nero, in questo caso, prevedono camera a spalla e zoomate d’effetto che, pur con ogni sospensione dell’incredulità, risultano di assai improbabile fattura nei primi anni Sessanta. 

locandina-le-origini-del-maleNonostante sia stato prodotto dai gloriosi studi Hammer e sceneggiato, tra gli altri, dall’altrove ottimo Oren Moverman (Io non sono qui, Oltre le regole – The Messenger), l’horror di John Pogue naviga a vele spiegate nell’oceano della stanchezza e della prevedibilità. La solita ragazzina posseduta (Cooke), in cura da un professore di Oxford (Harris) che vorrebbe dimostrarne un più razionale disturbo psicologico, è il pretesto per un ibrido involuto tra un insopportabile docufilm in stile Paranormal activity (non manca ovviamente il cameraman che documenta tutta l’azione in tempo reale) e una puntata del cartone animato Scooby Doo, cui per altro sembra ispirarsi il look dei tre ragazzi studiosi dell’occulto che affiancano il decano nell’inchiesta.

Dato che per oltre novanta minuti non succede assolutamente nulla, il film sfrutta quanto più possibile ogni cigolio, ogni porta, ogni tavolo e bambolina minacciosa per assestare qualche fallimentare sobbalzo allo spettatore, in una straziante escalation di puerilità acustiche. Di tensione neanche a parlarne, ma neppure di crescendo drammatico. Piattissimo, demenziale e tristemente inutile.

Giuseppe D’Errico

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