
Nureyev – The White Crow (The White Crow, GB/Francia, 2018) di Ralph Fiennes con Oleg Ivenko, Adèle Exarchopoulos, Ralph Fiennes, Čulpan Nailevna Chamatova, Aleksey Morozov, Raphaël Personnaz, Olivier Rabourdin, Sergei Polunin, Louis Hofmann
Sceneggiatura di David Hare, dal romanzo “Rudolf Nureyev: The Life” di Julie Kavanagh (ed. La nave di Teseo)
Biografico, 2h 03’, Eagle Pictures, in uscita il 27 giugno 2019
Voto: 4 su 10
Una delle personalità artistiche più iconiche del ventesimo secolo, un volto inconfondibile e un corpo narcisisticamente esibito per i fotografi più famosi e, al cinema, per Ken Russell, che lo diresse in un lussuoso fotoromanzo su Rodolfo Valentino; soprattutto, un talento innato per la danza, che lo portò a essere acclamato come il più grande ballerino classico del suo tempo, non tanto per la precisione tecnica quanto per il carisma che portava in scena: è Rudolf Nureyev, che rivive sullo schermo nella terza regia dell’attore britannico Ralph Fiennes, dopo un Coriolano da Shakespeare in salsa bellica contemporanea (Coriolanus, 2011) e un calligrafico biopic sentimentale su Charles Dickens (The invisible woman, 2013).
Nureyev – The White Crow, ispirandosi all’acclamata biografia-fiume di Julie Kavanagh su una sceneggiatura del veterano David Hare (Il danno, The Hours, The Reader), segue gli esordi del giovane Rudolf, giunto a Parigi nel 1961 a soli 22 anni, dopo un’infanzia sofferta tra la città sovietica di Ufa e la scuola per ballerini di Leningrado; qui, sotto la guida del famoso maestro russo Alexander Pushkin (interpretato dallo stesso Fiennes con tanto di pancione posticcio) inizierà ad affermarsi nel mondo del balletto grazie non solo alla sua forza interpretativa, ma soprattutto a causa del suo comportamento vivace e anticonvenzionale. Gli ufficiali del KGB vorrebbero rispedirlo in patria, ma Rudolf chiederà asilo politico nella capitale francese, in un episodio diplomatico che fece epoca.
Il Nureyev cinematografico ha il volto e la prestanza dell’etoile ucraina Oleg Ivenko, tanto funzionale nelle poche sequenze di danza quanto scoraggiante per doti recitative. Ma sarebbe ingiusto imputare a lui la scarsa efficacia di questo biopic piatto e raggelato, in maniera direttamente proporzionale alla carica iconoclasta e trasgressiva del personaggio che vorrebbe raccontare. Prima di arrivare ai venti minuti da spy story potenzialmente tesi del finale, il film bivacca in una stasi di formalismo misto a ripetitività che potrebbe far calare le palpebre degli spettatori meno disposti a una trattazione così blandamente tradizionale degli eventi.
Il giovane Rudolf vuole erudirsi e vaga per chiese e monumenti, tenta la scalata sociale circondandosi di ricche conoscenze (spicca per inutilità la presenza puramente decorativa di una mai così annoiata Exarchopoulos, nei panni luttuosi di Clara Saint) e cela egotisticamente la sua omosessualità: non proprio un campione di anticonformismo. L’aver appiattito così tanto la peculiarità polemica e provocatoria di Nureyev getta nel non sense anche le concitate sequenze all’aeroporto di Parigi, dove ci si ferma a chiedersi per quali terribili colpe il danzatore debba essere immediatamente rimpatriato.
Certamente non uno dei copioni più ispirati di Hare, senza contare la banalità registica nell’utilizzo dei flashback in quasi-bianco e nero, a sottolineare i natali grami del piccolo Rudi. Resta la puntuale illustrazione degli ambienti e il rimpianto per un’occasione cinematografica che si sarebbe potuta prestare a ben altre declinazioni del genio e della sregolatezza di Nureyev.
Giuseppe D’Errico
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