Nebraska (id, Usa, 2013) di Alexander Payne, con Bruce Dern, Will Forte, June Squibb, Stacy Keach, Bob Odenkirk, Mary Louise Wilson, Angela McEwan, Rance Howard
Sceneggiatura di Bob Nelson
Commedia, 2h 02′, Lucky Red, in uscita il 16 gennaio 2014
Voto D’Errico: 8 su 10
Voto Ozza: 7 su 10
Dopo A proposito di Shmidt e Sideways (ma anche in seguito all’introspezione della perdita di Paradiso amaro), Alexander Payne torna on the road. Si potrebbe definire Nebraska, l’ultimo film del regista americano (ma di radici greche) , come un poema della vita agra e solitaria, tenuta in piedi da personaggi brontoloni e arcigni in un paesaggio sterminato che solo la periferia statunitense sa restituire in tutte le sue freddure.
Un film che ricorda il miglior cinema degli anni Settanta, di quei maestri (Aldrich, Pollack) che raccontarono il dramma della Grande Depressione del ’29, che richiama la Alice di Scorsese e, soprattutto, la scabra desolazione (letteralmente, senza sole) dell’Ultimo spettacolo e Paper Moon di Peter Bogdanovich. Ne sono prova imperscrutabile la maestosa fotografia in bianco e nero, la scrittura brillante, minimale ma, al contempo, struggente, e le interpretazioni degli attori, su tutti un ritrovato Bruce Dern, icona d’epoca in film chiave come Non si uccidono così anche i cavalli? e Tornando a casa, già premiato a Cannes con la Palma d’Oro al miglior attore (e in corsa per l’Oscar, lo meriterebbe).
Nebraska è la storia di un’illusione, quella del vecchio Woody Grant (Dern) di essere il vincitore di un milione di dollari da ritirare nella città di Lincoln, appunto in Nebraska (ma è solo la pubblicità ingannevole di una casa editrice di riviste), e di un riscatto, quello del figlio David (Will Forte, bravissimo), preoccupato per il deteriorato stato mentale del padre e, per questo, più propenso ad assecondarlo nell’intraprendere il viaggio. Il confronto non sarà solo generazionale, ma anche con un passato che ritorna prepotentemente a bussare alla porta di Woody, ormai ricchissimo agli occhi delle lontane conoscenze.
Se c’è del calcolo nelle modalità di adesione alla sensibilità del pubblico (colto, sofisticato), è colpa a fin di bene: gli stilemi classici del road movie si uniscono a un racconto della memoria che non risparmia crudezze psicologiche (padre e figlio hanno un trascorso di alcolismo) e che, soprattutto, è in grado di proporsi anche in una veste capace di metterne in luce i risvolti più ironici. A proposito, alcuni dialoghi sono fulminanti e gli sproloqui rancorosi della moglie di Woody, interpretata da una strepitosa June Squibb, sono irresistibili e tutti da godere. E nel finale, largo ai sospiri, quelli che fanno palpitare d’emozione il cuore e che ci riconciliano col mondo, fatta vendetta sul cattivo (il mitico e, anche lui, indissolubilmente seventies Stacy Keach) e di nuovo pronti per tornare a casa.
Giuseppe D’Errico
Alexander Payne lavora su un tempo di digestione dell’immagine volutamente rallentato: funzionale al racconto, che ci parla di un viaggio esteriore, quello della rincorsa a un fantomatico premio, e un viaggio interiore, di padre e figlio, che si ri-conoscono per una seconda volta (Bruce Dern e Will Forte sono eccezionali). Il bianco e nero contribuisce a fondere i paesaggi minimalisti con la desolazione dell’anima di questi splendidi anziani, dai volti autentici, scarniti, trasandati, forse brutti ma proprio per questo magnifici (quanti attori hanno ancora il coraggio di mostrare i segni del loro tempo, senza ricorrere ad alcun ritocco chirurgico?). Pur essendo godibile il film risulta lento, troppo lento. Viene riscattato giusto nel finale, forse melenso ma incisivo, che non delude l’aspettativa del pubblico. Un ritratto, di un esterno, il Nebraska, e di un interno, l’anima di chi accudisce i propri cari nella loro terza età. Discreto.
Andrea Ozza
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