DIR International Film SRL presenta
L’EFFETTO CHE FA
scritto e diretto da Giovanni Franci
con Valerio Di Benedetto (Manuel Foffo), Riccardo Pieretti (Luca Varani) e Fabio Vasco (Marco Prato)
voce off Alessia Innocenti
cantante Mike Lupone
ph/elaborazioni digitali Marco Aquilanti
assistente Fabio Del Frate
In scena fino all’8 novembre all’Off/Off Theatre di Roma
Voto: 7 su 10
Uno spettacolo che ha generato discussioni e destato scalpore già dal suo annuncio, qualche mese fa, nel cartellone del nenonato spazio teatrale dell’Off/Off Theatre, nel cuore di Via Giulia. Se ne capiscono bene le ragioni, ma non il pruriginoso accanimento che ha fatto strillare i più a un’operazione biecamente speculativa su uno dei più agghiaccianti casi criminali della recente cronaca italiana, quello dell’omicidio Varani, che ha sconvolto l’opinione pubblica (con strascichi di insopportabile ipocrisia a livello mediale) e squarciato una ferita indelebile nella comunità gay romana. Lontanissimo da facili intenti commerciali, Giovanni Franci ha invece scritto e diretto uno spettacolo di grande intensità emotiva, che trascina lo spettatore in un’angosciosa riflessione sul vuoto sociale e affettivo di questi nostri tristi tempi.
Il fatto è atroce, la fine è nota: tra il 4 e il 5 marzo 2016 si consuma, nel quartiere Collatino, un weekend di violenza e depravazione che porterà alla barbarica uccisione del 23enne Luca Varani da parte di Manuel Foffo e Marco Prato. La vittima era un ragazzo terribilmente sprovveduto, proveniente dalla periferia popolare romana, al quale il destino non ha perdonato un errore commesso, l’aver malauguratamente accettato l’invito a un festino a casa di Prato, a base di sesso e droghe. A Franci non importano i motivi che spinsero Varani a varcare quella fatale soglia: che cambia se ci andò per un’offerta di natura sessuale, o perché spinto dal divertimento dato da stupefacenti e alcol, o ancora per piazzare una partita di cocaina? Che cambia ormai? No, ciò che interessa è l’indagine spietata di un disagio desolante, di una solitudine degli affetti incubata in un inconscio che fatica a riconoscere la realtà di sé e delle cose.
Gli assassini, entrambi appartenenti alla buona borghesia romana, dichiareranno di aver ucciso intenzionalmente ma senza una vera ragione, semplicemente per il gusto di fare del male e vedere l’effetto che fa: l’evidente perversione fa il paio con un palese disturbo della personalità, scaturito da anni di frustrazioni famigliari che hanno trovato il loro acme nella dichiarazione del padre di Foffo alla trasmissione di Bruno Vespa Porta a Porta, quando ci tenne a difendere a spada tratta l’assoluta eterosessualità del figlio, totalmente estraneo all’ambiente gay perchè “a noi ci piacciono le donne vere”. Gelo.
La drammaturgia porta in scena la tragedia forse nell’unico modo possibile, schematizzando l’indicibile e affidando ai tre protagonisti un discorso fatto di nervosi monologhi che non si incontrano mai con l’orrore vero e proprio dell’azione, risolta invece in una soluzione registica tanto intuitiva quanto efficace. Varani è il cantastorie, mentre i suoi carnefici portano a segno un ritratto-incubo dell’incapacità malata di trovare un posto nel mondo. Lo spettacolo non assolve nessuno se non quel povero ragazzo vittima della sua ingenuità, ai boia è riservata un’umana compassione che non può tradursi in assoluzione: la loro condanna è netta, ma forse i veri complici di Prato e Foffo sono gli status symbol di questa nostra epoca che genera solo un assordante silenzio.
L’urlo del testo risuona nelle coscienze e giustifica un’operazione di chiara urgenza, che si fa apprezzare per la sua coraggiosa e vibrante denuncia. Sono magnifiche le prove recitative dei tre attori sul palco: Valerio Di Benedetto è Manuel Foffo, un toro in bretelle e sguardo allucinato; Fabio Vasco da voce al delirio melodrammatico di Marco Prato, il pr degli eventi romani col mito di Dalida e dalle carenze private incolmabili; Riccardo Pieretti interpreta con toccante schiettezza Luca Varani, un ragazzo qualunque, uno come tanti, che come tale ci costringe a fare i conti con quanto gli è accaduto, seviziato, torturato, affettato come il pane e lasciato agonizzante con un pugnale nel petto fino all’ultimo respiro. La sua storia ha inizio dalla sua fine, perché nessuna storia insoluta può essere archiviata, e seppure la giustizia farà il suo corso, rimarrà impossibile decretare il senso di questo terrificante fallimento del genere umano.
Giuseppe D’Errico
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