“La ragazza nella nebbia”, un film di Donato Carrisi, la recensione

La ragazza nella nebbia (id, Italia/Francia/Germania, 2017) di Donato Carrisi con Toni Servillo, Alessio Boni, Michela Cescon, Galatea Ranzi, Lorenzo Richelmy, Jean Reno, Lucrezia Guidone, Daniela Piazza, Ekaterina Buscemi, Greta Scacchi, Jacopo Olmo Antinori, Antonio Gerardi

Sceneggiatura di Donato Carrisi, dal suo romanzo omonimo (ed. Longanesi)

Thriller, 2h 07′, Medusa, in uscita il 26 ottobre 2017

Voto: 2 su 10

La ragazza nella nebbia, trasposizione dell’omonimo best seller di Donato Carrisi, che ha anche scritto e diretto il film, è l’emblema di tutto ciò che di più deleterio il cinema italiano di oggi ha da offrire al suo pubblico. Ben inteso: Carrisi è uno dei nostri più apprezzati giallisti all’estero, abile artigiano di indagini a tinte fosche, che sanno come avvincere il lettore; ma la scrittura cinematografica è tutt’altra cosa rispetto alla stesura di un romanzo o alla narrazione televisiva. Questo suo film d’esordio denuncia tutti i limiti di una produzione condotta sull’onda della presunzione assoluta di poter portare a segno un thriller di spessore, senza minimamente considerare di avere a malapena i mezzi per una brutta fiction commerciale.

locandina-verLa storia gravita attorno alla misteriosa sparizione di un’adolescente dai capelli rossi in un paesino di montagna: l’indiziato numero uno è un professore schivo e ambiguo (Boni), inchiodato da prove schiaccianti; eppure l’agente Vogel (Servillo), che sta indagando sul caso, si rifiuta di accettare l’evidenza. Sul passato del luogo, infatti, gravano altre scomparse rimaste irrisolte che, per fisionomia delle vittime e modus operandi, sembrano collegarsi a quella attuale.

Ci sono momenti nella vita in cui è oltremodo doveroso fare i conti con le proprie possibilità: Donato Carrisi ha ottenuto fama e onori con la sua attività di romanziere, ma pretendere adesso di essere pronto per il grande salto cinematografico ci sembra un po’ troppo.  Questo La ragazza nella nebbia dovrebbe restare a imperitura memoria per nuovi e incauti scrittori illusi di poter giocare con la macchina da presa in maniera costruttiva.

Poteva rappresentare l’occasione per riportare in auge un genere che il nostro cinema contribuì a consacrare negli anni Sessanta e Settanta ma, purtroppo, non è così: tutto nel film è meccanico e fatalmente posticcio, non c’è un solo dialogo che non grondi di ampollosa verbosità letteraria, non c’è il minimo di tensione narrativa richiesta per un thriller, manca totalmente di credibilità, di sincerità, di concretezza.

Incapace di caratterizzare in modo originale la sua creatura, Carrisi si abbandona a una serie martellante di vezzi finto autoriali, estremamente seriosi ma “alti” nella sua immaginazione, alla disperata ricerca di un tono e di un’identità registica propria, ma non lo accompagna neppure il comparto tecnico. Tra scene madri, momenti di catatonica riflessione e gesti eclatanti – su tutti, il ridicolo dissotterramento di una videocassetta ai piedi di una croce – cade qualunque possibilità di appiglio alla buona fede dell’operazione.

Nota dolente anche per la direzione attoriale, un vero disastro di enfasi e overacting selvaggio, con spreco di datate macchiette e risibili mascheroni, nel quale resta travolto anche un altrove ottimo Servillo, mai tanto affettato e fuori parte.

C’è qualcosa che non va nel cinema italiano e in chi ne detiene il potere se un compitino velleitario, svolto nell’ingenuità più imbarazzante, arriva in sala in pompa magna, con tanto di pre-apertura della Festa del Cinema di Roma, un qualcosa di inquietante, di preoccupante, di cieco. “Il peccato più sciocco del diavolo è la vanità”, lo fa dire spesso Carrisi a uno dei suoi personaggi, scopiazzando la battuta finale di un ben più celebre film americano. Vanità. Meditiamo tutti.

Giuseppe D’Errico

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