La mia vita con John F. Donovan (The Death and Life of John F. Donovan, Canada, 2018) di Xavier Dolan con Kit Harington, Natalie Portman, Jacob Tremblay, Susan Sarandon, Kathy Bates, Thandie Newton, Ben Schnetzer, Jared Keeso, Amara Karan, Chris Zylka, Bella Thorne, Sarah Gadon, Emily Hampshire, Michael Gambon
Sceneggiatura di Jacob Tierney e Xavier Dolan
Drammatico, Lucky Red, in uscita il 27 giugno 2019
Voto: 6 su 10
La mia vita con John F. Donovan, settima delle otto fatiche cinematografiche girate dall’enfant prodige quebecchese Xavier Dolan (l’ultima è Matthias & Maxime, in concorso a Cannes 2019) e suo esordio in lingua inglese, è un caso emblematico di ritorsione feroce di una grande forma di ispirazione/ambizione verso il suo autore e, di conseguenza, della critica mondiale nei confronti di un giovane regista dal talento non comune, idolatrato a piè sospinto, ma sempre con punte di invidiosa acidità e atteso al varco al primo passo falso per essere distrutto.
La gestazione del progetto è ormai leggenda: annunciato in pompa magna come il più “colossale” dei film dell’allora ventisettenne Dolan, con un cast da urlo che avrebbe compreso, tra gli altri, anche la pop star inglese Adele, poi via via ridimensionato fino a una post-produzione a dir poco problematica, che ha comportato l’eliminazione dal montaggio finale del personaggio di Jessica Chastain e la rinuncia ai più importanti festival internazionali; presentato finalmente a Toronto nell’ottobre 2018, dopo rimaneggiamenti reiterati e la plateale insoddisfazione dello stesso regista, il film viene unanimemente stroncato. Uno straordinario fallimento, che riflette in nuce il potenziale di un poderoso affresco melodrammatico, dominato ancora una volta dallo scontro generazionale tra madri e figli, ma che si risolve in un sincero pasticcio di sceneggiatura, quasi strenue dichiarazione di incapacità di gestire una storia tanto sentita quanto sfuggente e complessa.
Traendo spunto da un pretesto autobiografico – Dolan, a 8 anni, scrisse una lettera a Leonardo Di Caprio, in cui dichiarava il suo totale amore di fan dopo la visione ripetuta di Titanic – il film racconterebbe la storia di una corrispondenza del tutto inusuale tra la star di uno show televisivo di grande successo, John F. Donovan (Kit Harington) e un bambino (Jacob Tremblay) che ne segue istericamente le avventure dallo schermo di casa: fuori dalla finzione, però, il divo è schiacciato dal tritacarne mediatico ed è costretto a celare la propria omosessualità, mentre il suo giovanissimo amico di penna, anche lui attore in erba, soffre le incombenze di una madre (Natalie Portman) incapace di sostenere le aspirazioni del figlio. Per entrambi arriverà la resa dei conti, quando il carteggio privato giungerà malauguratamente agli interessi della stampa scandalistica.
L’intera faccenda è il resoconto in flashback che, a distanza di dieci anni, il bambino ormai cresciuto (Ben Schnetzer) rilascia a una giornalista (Thandie Newton) nel corso di un’intervista. Basterebbe anche solo questo maldestro espediente narrativo, debole e incompatibile come legame tra narrazione e narratore, a far vacillare la verosimiglianza del film; purtroppo, però, c’è un ulteriore colpo inferto alla credibilità dell’intero assetto sceneggiativo, ossia la clamorosa mancanza delle famose lettere, l’assenza materiale dell’amicizia epistolare, più volte vagheggiata dai personaggi ma mai realmente (di)mostrata, quasi a voler involontariamente instillare nello spettatore il sospetto che sia tutta una bufala. Anche l’attenuante tensiva tra verità e bugia, però, si scontra subito con l’andare degli eventi sempre più confusionario e inconcludente, scoprendo così un fulcro narrativo che non sta in piedi.
Stesso dicasi per il discorso sul peso della celebrità che porta alla solitudine e sulla fama divoratrice di anime, un aspetto che Dolan avrebbe potuto trattare con ben altro spessore e che, invece, resta appeso al non detto in un generale piagnisteo senza reale causa, con una caduta nel kitsch più imperdonabile quando sceglie di far consolare il suo tormentato protagonista dalla comparsata estemporanea di un anziano dispensatore di perle di saggezza, interpretato da Michael Gambon, nel retrobottega di un ristorante…
Sembrerebbe il bollettino di una strage, è per molti versi lo è. Eppure La mia vita con John F. Donovan, in un’ottica più ampia e ragionata, non si può superficialmente bollare col marchio dell’infamia e merita il rispetto che in troppi gli hanno negato: perché ha tutte le carte in regola per essere il “grande film malato” di Xavier Dolan, così come lo intendeva François Truffaut, ossia quel film diretto da un regista forse non ancora giunto a piena maturazione, ma che in più occasioni (Laurence Anyways, Mommy) ha dimostrato di poter raggiungere risultati altissimi e che, per eccesso di sincerità, è incappato in un proposito sciagurato dove la vera ragion d’essere risiede nei difetti. Sì, perché nel tourbillon emotivo che muove questo film martoriato, fragile e scivoloso, c’è tutto il sentimento vivo di Xavier Dolan verso una passione bruciante, che in questo caso l’ha travolto. Al netto di interpretazioni magnifiche (Sarandon in testa, nei panni della madre alcolizzata di Donovan: una saggio di recitazione in piena implosione), di una messa in scena di grande suggestione e di un senso del racconto “bigger than life” in ogni caso trascinante, un film da rivalutare a posteriori. Magari il regista ci scriverà un libro, “The Death and Life of Xavier Dolan”.
Giuseppe D’Errico
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