LA BASTARDA DI ISTANBUL
Dal romanzo di Elif Shafak
Riduzione: Angelo Savelli
con Serra Yilmaz, Valentina Chico, Riccardo Naldini, Monica Bauco, Marcella Ermini, Fiorella Sciarretta, Diletta Oculisti, Elisa Vitiello
Video scenografie: Giuseppe Ragazzini
Costumi: Serena Sarti
Luci: Alfredo Piras
Elementi scenici: Tuttascena
Regia di Angelo Savelli
I diritti d’autore di Elif Shafak sono gestiti dall’agenzia Curtis Brown
In scena al teatro Sala Umberto dal 15 al 25 marzo
Voto: 5 su 10
Due vicende famigliari si riflettono nel percorso storico recente di due popoli differenti, quello turco e quella armeno, in un racconto che, narrando le diatribe piccolo borghesi delle casate Kazanci e Stamboulian, vuol riflettere sulle idiosincrasie di un presente nel quale le società multietniche sono un fatto ancora poco pacificamente assimilato.
Sensi di colpa storici, fede religiosa, credenze popolari, superstizioni, laicismo: tutto vive e convive nell’anziana Gulsum e nelle sue quattro figlie femmine, che assieme abitano in un grande appartamento di Istanbul, dal quale fugge l’unico discendente maschio, quel Mustafa che andrà a sposare, in Arizona, una donna americana precedentemente legata ad un esule armeno. Quando la giovane Armanoush lascerà l’America per la Turchia, alla ricerca delle sue più lontane origini, antichi segreti verranno portati alla luce e si compirà un triste destino legato ad una presunta maledizione che colpisce gli uomini di casa Kazanci.
Il racconto della scrittrice Elif Shafak, dal quale Angelo Savelli trae la drammaturgia messa in scena sul palco della Sala Umberto, è un melodramma complesso e ambizioso nel quale veniamo introdotti dal racconto-lettura che i protagonisti sul palco fanno di se stessi: parlano in terza persona le protagoniste di questa storia, come se leggessero quanto l’autrice ha di loro scritto, per raccontarsi ad un pubblico che deve essere edotto sul loro background, in attesa di capire come andrà avanti la loro complessa storia.
“La bastarda di Istanbul” è come l’asure, il dolce composto da molteplici ingredienti che, nel finale della storia, assume rilevanza metaforica e narrativa: tanti ingredienti-elementi che, amalgamati tra di loro, strutturano un unico piatto, nel quale si fondono sapori differenti: difficile che tutti possano soddisfare nel medesimo modo tanto il palato quanto lo spettatore che assiste a questa rappresentazione.
Sembra, ad esempio, che questa messa in scena troppo debba al testo dal quale è tratta, che racconti, spesso, lasciando fluire le sole parole del romanzo, senza rappresentare come il teatro sarebbe chiamato a fare, rinunciando in alcuni momenti addirittura alla recitazione delle sue interpreti. Eppur visivamente ben restituiscono l’esotica atmosfera che è propria di questa vicenda le video scenografie di Giuseppe Ragazzini e spesso si sorride con piacere delle tante battute che puntellano una storia che, invece, va a rivelarsi amara, addirittura tragica, e certo stona come una spezia dal sapore decisamente prepotente udire una delle attrici che recita le sue battute con malcelato accento toscano.
Si assaggi pure questo “piatto”: qualcuno lo troverà di suo gusto, qualcun altro, invece, farà fatica a terminarlo, pensando che le rappresentazioni riuscite siano altra cosa.
Marco Moraschinelli
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