Jackie (id, Usa/Cile, 2016) di Pablo Larraín con Natalie Portman, Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, John Hurt, Billy Crudup, Richard E. Grant, Caspar Phillipson, John Carroll Lynch, Beth Grant, Max Casella
Sceneggiatura di Noah Oppenheim
Biografico, 1h 40’, Lucky Red, in uscita il 23 febbraio 2017
Voto: 8½ su 10
Pablo Larraín è uno dei più interessanti e apprezzati giovani autori oggi in circolazione. Lo dimostrò sin dai tempi di Tony Manero e Post Mortem, per confermarlo poi con No – I giorni dell’arcobaleno. Ma la vera prova di un talento complesso e impegnato, fino al limite dell’intellettualismo, è arrivata con El Club, sul tema scomodo della pedofilia in famiglia, e soprattutto con Neruda, cervellotico ma affascinante e inconsueto biopic sul celebre poeta comunista in fuga dalla dittatura di Videla. Con Jackie, sua prima produzione statunitense, continua la sua opera di destrutturazione del genere biografico, a partire da un avvenimento cardine nell’esistenza del personaggio trattato.
Il titolo non lascia dubbi, è la vedova Kennedy l’oggetto al centro di una narrazione dall’impianto fortemente psicologico, che prende le mosse da un’intervista che l’ormai ex first lady (Portman) rilasciò il 29 novembre 1963 al giornalista Theodore H. White (Crudup) per Life, appena sette giorni dopo l’assassinio di JFK a Dallas, per poi indagare a largo spettro la persona dietro al personaggio, attraverso un raffinato meccanismo di rimandi tra presente e passato. Il regista cileno, coadiuvato da una sceneggiatura magistrale firmata da Noah Oppenheim (premiata all’ultimo Festival di Venezia), scruta la trentaseienne Jacqueline alle prese con i preparativi della cerimonia funebre, inframezzando questo momento di tensione personale, ma anche politica e sociale, con alcuni brani di una trasmissione televisiva relativa all’inizio del mandato presidenziale, nella quale i coniugi Kennedy, ma in particolar modo Jackie, aprivano al pubblico le porte della Casa Bianca, raccontandone storia e aneddoti in una sorta di visita guidata.
Questo duplice piano temporale (ma la cronologia degli eventi è ben più stratificata) offre la giusta distanza tra quelle che erano le ambizioni di merito e notorietà di una giovane, colta e aristocratica moglie del presidente, e quelli che saranno i risultati dell’essere diventata una Kennedy, dove il peso per la morte violenta del marito non è il solo a gravare in un’esistenza passata a dover affermare la propria identità davanti ai mezzi di comunicazione. L’improvvisa vedovanza acquista, in quest’ottica, un destabilizzante senso di smarrimento, che si concretizza nel graduale smantellamento della dimora presidenziale che Jackie aveva arredato con tanta premura, per farne una nuova e ideale Camelot.
È proprio attraverso questo desiderio di autodeterminazione che Larraín tratteggia il ritratto della sua eroina arrogante e tragica, dal suo conflitto con una politica che voleva tenerla in disparte, fino alla decisione epocale di “spettacolarizzare” un dramma privato per farne un evento di massa. Una lettura audace e intelligente di un mito della cultura popolare contemporanea, che trova in Natalie Portman un’interprete oltremodo eccezionale. Uno degli appuntamenti immancabili di questa stagione cinematografica.
Giuseppe D’Errico
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