“It – Capitolo Due”, un film di Andrés Muschietti, la recensione

It – Capitolo Due (It – Chapter Two, Usa, 2019) di Andrés Muschietti con James McAvoy, Jessica Chastain, Bill Heder, Jay Ryan, Andy Bean, Isaiah Mustafa, James Ransone, Bill Skarsgård, Teach Grant, Chosen Jacobs, Finn Wolfhard, Jack Grazer, Jaeden Lieberher, Jeremy Ray Taylor, Nicholas Hamilton, Sophia Lillis, Xavier Dolan, Peter Bogdanovich, Stephen King, Jess Weixler, Jake Weary

Sceneggiatura di Gary Dauberman, Jeffrey Jurgensen dal romanzo omonimo di Stephen King

Horror, 2h 50’, Warner Bros. Pictures Italia, in uscita il 5 settembre 2019

Voto: 5 su 10

Avvicinarsi con le giuste aspettative alla visione di It – Capitolo Due era lecito, considerando anche il buon lavoro svolto con il film precedente dal regista Andrés Muschietti e soci. I membri del club dei perdenti, 27 anni dopo i fatti del 1989 (ma nel romanzo erano gli anni ’50), si ritrovano a Derry per sconfiggere la materializzazione di tutte le loro paure, il pagliaccio danzante Pennywise, nuovamente giunto in città a seminare morte e terrore: con i protagonisti finalmente cresciuti (e con attori di un certo peso come James McAvoy e Jessica Chastain a dar loro spessore) c’era l’occasione per una resa dei conti decisamente gustosa, senza contare la possibilità di delineare un horror introspettivo e adulto, più di quanto già non lo fosse il primo, che pure era riuscito a raccontare in modo convincente l’amoralità stagnante e omertosa della provincia americana. In questo secondo e ultimo capitolo, lungamente atteso, assistiamo invece a uno slittamento di registro francamente inaspettato: tanto il Capitolo Uno era rigoroso e sensato, pur nelle logiche di un blockbuster per il grande pubblico, tanto questo suo interminabile seguito è puerile, meccanico e senza un filo di decenza verso ciò che sta raccontando.

Senza mezzi termini, It – Capitolo Due fa rimpiangere l’efficacia drammatica e la stringatezza della tanto vituperata miniserie televisiva con Tim Curry che, pur tra mille limiti e con un finale inevitabilmente monco e goffo, almeno non perdeva mai di vista la storia e i suoi personaggi. Muschietti invece, orfano di Cary Fukunaga in sede di sceneggiatura, imbastisce un baraccone orrorifico privo di malessere e di ogni originalità, ma talmente tracotante e artificiale da risultare straordinariamente soporifero. Non manca qualche momento riuscito, in cui si percepisce la passione dietro alla patina di superficie, ma sono solo attimi in una scrittura di rara schematicità, che fa girare a vuoto il film nel tentativo disperante di arrivare a una durata, questa sì, davvero mostruosa, atta a saziare gli ignavi avventori da multiplex. E così il film è tutto un susseguirsi esanime di scenette spaventosamente sciatte, utili forse a dare adito alla vena citazionista e cinefila del regista (da Alien al Sam Raimi di Drag me to hell, passando per un’apparizione speciale del grande Peter Bogdanovich) ma non a creare un racconto solido, men che meno ad abbozzare un’atmosfera paurosa o a infondere un trascorso pur minimo ai personaggi.

Perché piegare in modo così deludente un mito horror come It alle leggi più becere dello spettacolo di massa rimane una domanda dalla risposta tristemente risaputa. Persino il ricorso insopportabilmente insistito alla comicità ne è una conferma: manca la sporcizia e il disagio del genere, abbondano kitsch (il trip allucinogeno e grottesco di McAvoy nel rituale indiano) e ridicolo quasi sempre volontario, in barba al film per adulti.

Che ci sia o meno alla base il romanzo di Stephen King, che pure regala un suo cameo, è ormai elemento puramente collaterale. Il tradimento letterario era un necessario peccato veniale che scompariva di fronte alla validità della struttura narrativa del primo capitolo, ma qui il referente originario è brutalmente fatto a pezzi (scompare del tutto la figura centrale di Audra Phillips, moglie di Bill, e anche il poco spazio riservato al villain Henry Bowers non giustifica certo le sue apparizioni estemporanee e gratuite ai fini della vicenda), sacrificato sull’altare di uno spettacolone chiassoso e vuoto, unicamente mirato ad essere consumato con avidità e digerito con altrettanta rapidità. Un bel paradosso per una storia che si propone come riflessione sul potere della memoria.

Giuseppe D’Errico

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