Il grande Gatsby (The Great Gatsby, Usa, 2013) di Baz Luhrmann con Leonardo DiCaprio, Carey Mulligan, Tobey Maguire, Joel Edgerton, Isla Fisher, Jason Clarke, Elizabeth Debicki
Sceneggiatura di Baz Luhrmann e Craig Pearce, dal romanzo “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald
Drammatico, 2h 25’, Warner Bros Pictures, in uscita il 16 maggio 2013
Voto: 5 su 10
Il film più pubblicizzato dell’anno è una delusione. Il rammarico non è solo nei confronti di un romanzo epocale, che per la quarta volta si ritrova ad affrontare il grande schermo, ma anche per un regista, in passato, di straordinaria comunicativa, ormai ridotto a un meccanico da botteghino.
Un sentimento di irritazione costante accompagna l’intera visione di quest’ultimo Grande Gatsby, evento d’apertura di Cannes 2013 e attesissimo kolossal multimilionario dell’australiano Baz Luhrmann, pronto a raccogliere l’eredità di un testo cardine della cultura americana con l’intenzione di farne una fiera delle atrocità in cui dare libero sfogo alla sua megalomania estetica.
La storia d’amore tragica tra il misterioso contrabbandiere Jay Gatsby (Leonardo DiCaprio) e la fatua ereditiera Daisy Fay (Carey Mulligan), sullo sfondo dei ruggenti anni ’20 in una New York tutta corruzione, party e vita disperata, diventa, nelle mani del regista e dello sceneggiatore Craig Pearce, il pretesto per confezionare una macchina spettacolare oltre i limiti del tollerabile, con sperpero inaudito di stucchevolezze visive ed effetti speciali in computer graphic (complice un 3D fatale).
Se in un primo momento lo stile può lasciare senza fiato, ben presto le evoluzioni di carrelli e macchine volanti, aggiunte all’opulenza senza precedenti di costumi e arredi, rivelano solamente la faticosissima voglia di stupire con l’eccesso del tutto fine a sé stesso. Il troppo, si sa, stroppia, e qui la tracotanza straborda in un pachidermico polpettone sentimentale, perennemente perso nei meandri del kitsch più estetizzante e purtroppo indifferente della struggente complessità insita nelle pagine di Fitzgerald.
Fatto salvo l’affresco focoso di un’epoca ricostruita a suon di hip hop e jazz (colonna sonora martellante di Craig Armostrong e Jay-Z, che va da Gershwin a Beyònce che rifà Amy Winehouse), l’ispirazione del progetto si esaurisce tristemente in dialoghi di rara affettazione e in situazioni pesantemente rimarcate, col risultato di appiattire ogni mistero e azzerare qualunque emozione, senza che neppure attori come DiCaprio (tronfio), Maguire (improbabile) e la Mulligan (insopportabile) riescano a donare un briciolo di verità alla vicenda.
Quel che resta è un film vuoto e spesso assai ridicolo, che getta un inquietante monito sul futuro del cinema (e di certo cinema finto-autoriale) come “fabbrica di sogni” nella peggior accezione possibile del termine, fatto e pensato per un incasso che, sicuro, arriverà copioso.
Giuseppe D’Errico
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