“Il fuoco della vendetta”, fratelli in armi ma il dramma è scontato

Il fuoco della vendetta (Out of the Furnace, Usa, 2013) di Scott Cooper con Christian Bale, Woody Harrelson, Casey Affleck, Zoë Saldana, Forest Whitaker, Sam Shepard, Willem Dafoe, Tom Bower

Sceneggiatura di Scott Cooper, Brad Ingelsby

Drammatico, 1h 57′, Indie Pictures, in uscita il 27 agosto 2014

Voto: 5½ su 10

Presentato in concorso durante l’ultima edizione del Festival del Film di Roma, dove ha vinto la Camera d’Oro per la migliore opera prima/seconda, Il fuoco della vendetta è la conferma che non basta un cast di attori di comprovato spessore per fare un film capace di restare nel tempo. Professionale ma scontatissimo, l’ultimo lavoro del giovane regista Scott Cooper, che qualche anno fa diresse l’apprezzato Crazy Heart che portò all’Oscar Jeff Bridges, ha tutti gli elementi per un plumbeo drammone di provincia statunitense con ovvi legami a tutto un cinema dolente di qualche decennio orsono: location desolate a un passo dall’inferno, personaggi tormentati, degrado e delinquenza, vendetta privata.

IL_FUOCO_DELLA_VENDETTA_GDue fratelli nell’Indiana di metà anni Ottanta: Russell (Bale) è quello buono e sfortunato, lavora in fabbrica come un tempo fece il padre, ora malato terminale, ha una donna che ama (Saldana) e tante difficoltà quotidiane; Rodney (Affleck) è quello problematico, reduce di guerra ormai irrecuperabile, schiavo dei debiti e delle gare di lotta clandestine organizzate da un losco trafficone (Dafoe). Russell finisce in carcere dopo un tragico incidente stradale di cui è responsabile, Rodney entra nelle brutte mire di un malavitoso senza scrupoli (uno spaventoso Woody Harrelson). Il finale di sangue è annunciato.

Il film è ben confezionato e si affida a luci e musiche (tra gli altri, anche Eddie Vedder) per garantire la sensazione di una discesa agli inferi che, col passare dei minuti, si fa sempre più inesorabile. Manca, però, completamente di originalità, sia in termini di narrazione che sotto un punto di vista puramente estetico: non è solo la clamorosa ovvietà di scrittura a destare sensazioni di sconforto, ma anche la profusione senza alcuna parsimonia di cliché visivi e uditivi abusatissimi dal cinema di genere americano che scava nel marcio della provincia americana. C’è l’immancabile momento di caccia metaforico (preso di peso da Il cacciatore di Cimino), ci sono le stamberghe isolate nei boschi, i bar sudici gestiti e frequentati da gente sudicia, e un fato avverso a vietare ogni minima possibilità di redenzione. Gli ottimi interpreti non riescono a compensare tanta prevedibilità, la regia è dignitosamente anonima, l’interesse viene presto a mancare.

Giuseppe D’Errico

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