“Fuga a Parigi – French Exit”, un film di Azazel Jacobs, la recensione

Fuga a Parigi (French Exit, Canada/Irlanda/GB, 2020) di Azazel Jacobs con Michelle Pfeiffer, Lucas Hedges, Tracy Letts, Valerie Mahaffey, Imogen Poots, Danielle Macdonald, Isaach De Bankolé, Daniel Di Tomasso

Sceneggiatura di Patrick deWitt, dal suo romanzo omonimo (2018)

Commedia, 1h 50’,  da aprile 2021 in VOD

Voto: 6 su 10

“Il mio piano era morire prima che finissero i soldi e invece ho continuato e continuo a non morire, ed eccomi qua”. Il proverbiale fatalismo mortifero al quale da secoli si aggrappa la classe dirigente americana è racchiuso in un’unica, lapidaria battuta di sconfitta. A pronunciarla è Frances Price, una matura socialité newyorkese ridotta al lastrico dopo la morte del marito e il conseguente pignoramento delle proprietà da parte della banca. Sembrerebbe un cliché abusato, se non fosse che la vedova è interpretata da Michelle Pfeiffer e lo script firmato dal canadese Patrick deWitt (I fratelli Sister), abile nel rivestire di modernità temi e generi classici, che riadatta per il grande schermo il suo romanzo omonimo. E il film, French Exit – tradotto per l’Italia in Fuga a Parigi – è quello che avrebbe dovuto rilanciare la sua splendida protagonista nella stagione dei premi: presentata al 58esimo New York Film Festival e distribuita in patria in piena pandemia (da noi direttamente in streaming), la pellicola non ha raccolto, se non il successo, neppure l’interesse sperato, con grande scherno delle speranze che la Pfeiffer aveva riposto in questo ormai raro ruolo di primo piano.

Ma per tornare al cliché della ricca aristocratica in miseria, deWitt colora il personaggio di Frances di tante ciniche e affascinanti sfumature: con una borsa carica di soldi, ottenuti con la vendita degli ultimi beni materiali rimasti, la donna scappa alla volta di Parigi insieme al taciturno figlio Malcolm (Lucas Hedges) e al gatto nero di casa, possibile reincarnazione del defunto marito, approfittando di un appartamento lasciato vacante da una sua cara amica. Questa volta, però, il piano non prevede di soccombere al termine del denaro: all’ultima banconota, Frances ha deciso di porre fine alla sua vita, in un estremo senso di rivalsa.

“Sì, la mia vita è piena di cliché, ma sai che cos’è un cliché? Una storia così bella ed elettrizzante da essere invecchiata nella speranza di venir raccontata ancora”. Anche il detrattore più agguerrito avrebbe difficoltà a controbattere una dichiarazione d’intenti talmente esibita e autoassolutoria. E infatti il film funziona solo quando è concentrato a raccontare le cupe stranezze e la disperazione della sua protagonista principale, cui Michelle Pfeiffer dona tutto il suo invidiabile carisma. Attorno a lei, il film deperisce, rincorrendo toni artificiosamente grotteschi attraverso una folla di personaggi marginali che, inserendosi alternativamente in questa fuga dalla vita, arriveranno a installarsi tutti nell’appartamento parigino di Frances.

Queste piccole narrazioni collaterali sono come schegge impazzite di nevrosi e idiosincrasie che confondono e appesantiscono le acque di una tragicommedia che finisce per disorientare, sospesa in una bolla naïf costantemente sul punto di esplodere. E così, mentre la vedova cerca di dar fondo nel più breve tempo possibile al suo patrimonio, comprando vino d’annata ed elargendo donazioni ai barboni del parco, varia umanità agisce alle sue spalle, provando ad impedire i suoi intenti di morte. Forse inutilmente.

Il regista Azazel Jacobs aveva già collaborato con deWitt nel suo precedente Terri (2011), ma il sospetto che qui servisse una mano più esperta nel maneggiare un tale mix di umori è fondato: French Exit rimane un film ambizioso ma fragile come la protagonista che porta in scena, nonostante la presenza dolente, elegante, struggente di Michelle Pfeiffer. Dispiace che in pochi si siano accorti di lei.

Giuseppe D’Errico

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