FEDRA
dalla Phaedra di Seneca
adattamento e regia Andrea De Rosa
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
scene e costumi Simone Mannino
luci Pasquale Mari
suono G.u.p. Alcaro
assistente alla regia Thea Dellavalle
collaborazione scientifica Alfredo Casamento
con Laura Marinoni, Luca Lazzareschi, Anna Coppola, Fabrizio Falco, Tamara Balducci
In scena all’Arena del Sole di Bologna fino al 6 dicembre
Voto: 9 su 10
«Voler guarire è già parte della guarigione» scriveva Seneca. Ma si può guarire dall’amore? da questo sentimento di cui non si conosce nemmeno bene la natura, che divora tutti i sensi e conduce a fare cose inenarrabili? Se i miti ci aiutano a porci queste domande e cercare dentro le risposte, sicuramente Fedra, soprattutto quella raccontata da Seneca, non è stata in grado di domare il suo furor, come lo definisce il filosofo latino. Mai parola fu più indicata per esprimere il delirio amoroso di cui è vittima questa eroina: furor significa pazzia, ma anche passione violenta, delirio amoroso, desiderio sfrenato. E sono tutti questi impulsi che Andrea de Rosa, continuando la sua proficua collaborazione con Emilia Romagna Teatro, ha voluto evidenziare nella sua Fedra, andata in scena all’Arena del Sole di Bologna.
Ancora una volta, come già fece per il Simposio di Platone, il regista mette in scena l’amore, qui inteso come qualcosa da cui si viene posseduti, qualcosa che proviene da fuori, come un contagio esterno al quale è impossibile ribellarsi. In Fedra questa passione diventerà poi un’esperienza estrema, una malattia con sintomi precisi, espressione di quella trepidazione che, fin dall’inizio, è presagio di sofferenza e morte. L’amore che la protagonista nutre nei confronti del figliastro Ippolito – che si dedica esclusivamente alla caccia e al culto di Artemide, senza alcun interesse per le questioni sentimentali – tesserà la condotta di tutti i protagonisti e ne segnerà il loro destino.
In scena ci sono cinque magnifici attori – Laura Marinoni (Fedra), Luca Lazzareschi (Teseo), Anna Coppola (una Dea), Fabrizio Falco (Ippolito), Tamara Balducci (una ragazza) – sempre presenti sul palco, a volte come protagonisti, altre come attenti osservatori di un destino ineluttabile che si attua davanti ai loro occhi. Prima che si apra il sipario, una Dea afferma: «Io sono una dea potente e posso donare la follia». La sua figura è ambigua, per diversi aspetti, a partire dalla sua fisicità. Tutta vestita di rosso, gli abiti maschili e la postura le donano, nonostante si capisca sia una donna, ambiguità sessuale. Per tutto lo spettacolo si comporterà come un demiurgo che governa e manipola i movimenti degli attori, i suoni, le luci, attraverso il suo modo cinico e irridente, con la sigaretta sempre accesa, godendo di ciò che lei stessa ha voluto accadesse. Alla fine però, sarà proprio lei ha dichiarare: «Io non sono una dea, io non sono niente. Non si devono levare le mani al cielo: il dio ti è vicino, è con te, è dentro di te». Con queste parole tutta la responsabilità dell’accaduto, ricade prontamente sugli uomini che non potranno più attribuire le colpe delle loro azioni a una forza superiore.
Una menzione particolare va fatta per la scenografia. Un enorme cubo è al centro della scena. Una luce bianca, algida inonda quest’ambiente soffocante, come una cella del pensiero, una prigione dalla quale è impossibile uscire. Dentro si sveleranno i segreti più intimi dei personaggi e ne conosceremo i loro desideri nascosti, la parte più profonda della psiche. Il pensiero diventa intimo e lo spettatore ha l’impressione di spiare dentro l’anima del personaggio che, costretto dal luogo, non ha via di scampo. Un luogo asfissiante, un luogo dello spirito e dell’azione, quell’azione che già porta con sé il suo effetto, partorisce conseguenze. E non è un caso che tutta la vicenda si svolge dentro il cubo e chi sta fuori, osserva ed è inerme. L’uso del microfono poi evidenzia ogni sillaba pronunciata, pone l’accento sui respiri che da aneliti d’amore diventano presagi di sventure e permettono di catturare ogni dettaglio e sfumatura dei personaggi.
Sulla destra delle maschere neutre illuminate da una flebile luce accolgono coloro che sono stati risucchiati nell’Ade. Vi abiterà Teseo, che riuscirà però a fuggire dagli Inferi per trovare un inferno ancora più bruciante nella vita, tanto da desiderare di nuovo di morire. Infatti, ingannato da Fedra, che gli racconta di essere stata violentata da Ippolito per vendicarsi del suo rifiuto, Teseo ucciderà il figlio chiedendo a Poseidone, dio del mare, di realizzare il suo ultimo desiderio. La messinscena dell’uccisione di Ippolito è uno dei momenti più belli della pièce. Il furore della Natura che si scaglia contro l’uomo, implacabile, viene reso attraverso un gioco di luci e suoni che impregna il teatro di pathos. Solo dopo aver compiuto la sua vendetta Teseo scopre, dalla stessa moglie, che ciò che gli aveva rivelato era falso. Anche Ippolito, dopo essere stato fatto a brandelli dal mostro del mare invocato dal padre, si rifugerà dietro la maschera neutra dell’oblio.
Tante le suggestioni (molto efficaci anche le luci di Pasquale Mari e i suoni di Gup Alcaro) che catturano lo spettatore e lo lasciano incollato alla sedia, con il respiro mozzato fino alla fine dello spettacolo, quando tutta la tensione esplode in un applauso liberatorio.
Amelia Di Pietro
Lascia un commento