#arenaestiva: “Ocean’s 8”, un film di Gary Ross, la recensione

Ocean’s 8 (Ocean’s Eight, Usa, 2018) di Gary Ross con Sandra Bullock, Cate Blanchett, Sarah Paulson, Helena Bonham Carter, Anne Hathaway, Rihanna, Mindy Kaling, Awkwafina, Richard Armitage, James Corden, Elliott Gould, Dakota Fanning, Katie Holmes, Heidi Klum

Sceneggiatura di Gary Ross e Olivia Milch

Commedia, 1h 50′, Warner Bros. Entertainment Italia, in uscita il 26 luglio 2018

Voto: 5½ su 10

In un momento in cui l’industria cinematografica è chiamata, come mai prima d’ora, a confrontarsi con la presenza femminile nelle produzioni che contano, soprattutto dopo movimenti trasversali come Time’s Up e Me Too, che hanno portato l’attenzione pubblica a volgere lo sguardo non solo sulle violenze di tipo sessuale ma anche sulla disparità di trattamento economico tra uomo e donna (il momento di svolta fu il discorso di ringraziamento di Patricia Arquette nel ritirare l’Oscar per la sua interpretazione in Boyhood nel 2015), insomma in un quadro simile, un film come Ocean’s 8 sembra quasi un paradosso. Ben inteso, è un piacere che un blockbuster statunitense sia trainato dalla presenza carismatica, pressoché assoluta (unici uomini nel cast sono Richard Armitage e James Corden, in ruoli di contorno), di otto primedonne dello spettacolo, ma allo stesso tempo fa riflettere che l’occasione arrivi con una sorta di sequel/spin-off di una saga maschile, quasi a volerne in questo modo legittimare – e oggettivamente sminuire – la nuova ramificazione al femminile, senza che questa venisse comunque scritta e/o diretta da una donna.

imagesControsensi di Hollywood a parte, questo Ocean’s 8 (altra incoerenza: perché mantenere la cifra nel titolo e non stenderla in lettere come da tradizione? Mistero) si aggancia al celebre trittico soderberghiano per mezzo di una sorella, Debbie (Sandra Bullock), del capobanda Danny Ocean, interpretato a suo tempo da George Clooney. Evidentemente l’arte del furto è una dote di famiglia se anche Debbie, non paga di sei anni di gattabuia, appena rilasciata decide di mettere su una squadra di alleate per un nuovo, incredibile colpo: rubare un inestimabile collier di diamanti Cartier durante il Met Gala di New York. Ad affiancarla nell’impresa ci saranno la sua vecchia complice Lou (Cate Blanchett), la ricettatrice Tammy (Sarah Paulson), l’esperta di gioielli Amita (Mindy Kaling), l’hacker Palla Nove (Rihanna), la truffatrice Constance (Awkwafina) e la stilista in declino Rose (Helena Bonham Carter), appositamente assoldata per convincere la diva vanesia Daphne Kluger (Anne Hathaway) a portare al collo l’oggetto del crimine durante la serata al Metropolitan Museum. Riusciranno le nostre ladre nell’impresa?

Al di là del divertimento intrinseco al genere heist, che porta l’intreccio a continue e sempre più mirabolanti declinazioni pur di stupire il pubblico, con Ocean’s 8 assistiamo a un passo indietro rispetto alla meccanica ad orologeria con cui era orchestrato almeno il primo capitolo diretto da Steven Soderbergh (che, a sua volta, era il remake del famoso Colpo grosso del Rat Pack di Frank Sinatra & Co.); rispetto al modello originario, il buon Gary Ross (Pleasantville, Hunger Games) cura con dovizia i colpi di scena in sede di scrittura, ma smorza l’antefatto e banalizza ogni espediente criminale in un mare di sorrisi e battutine, col risultato di rendere sin troppo semplice a realizzarsi un colpaccio che, in teoria, dovrebbe sembrare impossibile da portare a compimento.

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Il film scorre in maniera vorticosa assecondando gli standard contemporanei, porta in scena una sfilata di glamour da fare invidia al numero di settembre di Vogue e tiene alta la bandiera dell’unione femminile, ma a mancare sono magia e caratteri. Per quanto le attrici riescano a scongiurare con brillantezza (e, nel caso della Hathaway, con irresistibile autoironia) l’idiosincrasia verso otto ladre di professione, non c’è un solo personaggio che vada oltre la semplice figurina priva di spessore (è soprattutto la Blanchett a farne le spese), col risultato di impoverire anche il sogno delle loro gesta (anti)eroiche. In questo modo, l’accorto lavoro di packaging prende il sopravvento sui contenuti e il divertimento si fa tanto immediato quanto futile. L’importante è che la causa femminista ne abbia giovato (?).

Giuseppe D’Errico

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