Cane mangia cane (Dog Eat Dog, Usa, 2016) di Paul Schrader con Nicolas Cage, Willem Dafoe, Christopher Matthew Cook, Omar J. Dorsey, Louisa Krause, Melissa Bolona, Reynaldo Gallegos, Paul Schrader
Sceneggiatura di Matthew Wilder, dall’omonimo romanzo di Edward Bunker (ed. Einaudi)
Thriller, 1h 33’, Altre Storie in collaborazione con Minerva Pictures, in uscita il 13 luglio 2017
Voto: 6 su 10
Negli ultimi anni Paul Schrader sta subendo un disinteresse dall’universo produttivo cinematografico che dovrebbe far riflettere sulla riconoscenza spesso inesistente che si riserva alle grandi personalità che hanno contribuito a delineare l’identità del nuovo cinema americano. Parliamo, infatti, di una delle massime autorità della cosiddetta “New Hollywood”, quella che, tra il finire degli anni Sessanta fino ai primi anni Ottanta, ha combattuto lo strapotere televisivo con pellicole dai contenuti forti e inediti per l’epoca. Sceneggiatore di razza (sono suoi i copioni di capolavori quali Taxi Driver e Toro scatenato di Scorsese e di Mosquito Coast di Weir) e regista di opere divenute immediatamente cult come American Gigolo e Il bacio della pantera, remake con Nastassja Kinski del classico horror di Tourneur, Schrader sta pagando ultimamente il prezzo della sua assoluta libertà espressiva, che ha spesso trovato risultato in lavori non sempre baciati dalla stella del box office e, soprattutto, dalla lungimiranza dei produttori.
Dopo le delusioni commerciali del melodramma Forever Mine (1999) e di Auto Focus (2002), e a seguito della débâcle totale del suo Dominion: prequel to the Exorcist (2005), rifiutato dalla casa di produzione e mai uscito in sala, la carriera di questo grande autore ha subìto un arresto dal quale è stato difficile ripartire. Avevamo lasciato Schrader alle atmosfere torride del goffo thriller The Canyons (2013), finanziato con fondi racimolati dalla rete e interpretato da una disfatta Lindsay Lohan, e al disconosciuto Il nemico invisibile (2014), rimontato senza il suo volere e boicottato alla sua uscita; lo ritroviamo ora nelle nostre sale con Cane mangia cane, noir psichedelico tratto dall’omonimo romanzo di Edward Bunker (autore prediletto di Tarantino), a oltre un anno dalla presentazione ufficiale nella Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2016.
Il film racconta del tentativo, particolarmente mal riuscito, di tre ex galeotti (Cage, Dafoe e Cook) di rifarsi una vita normale solo dopo aver portato a termine un ultimo pericolosissimo colpo e, sotto un profilo puramente narrativo, non dice assolutamente nulla di nuovo né di interessante. Sulla carta, quello tra Schrader e la pulp fiction di Bunker poteva essere un matrimonio felice, e invece quest’unione è mal servita da una sceneggiatura di rara dispersione, che consegna al film una struttura fragile e priva di coesione. Vale la pena, però, notare quanto l’assoluta anarchia registica di Cane mangia cane legittimi un’opera, per il resto, priva di valore.
Senza dover sviscerare per filo e per segno quanto l’occhio dell’autore si muova con totale autonomia nel contesto malavitoso a disposizione (complici le solite ristrettezze di budget), basterà citare l’incipit a dir poco fulminante con cui Schrader mette in chiaro come nulla potrà mai smorzare il suo talento fuori dalle righe: in un interno casalingo infetto di un’accecante tonalità rosa confetto, il drogato e irritabile Mad Dog (Dafoe), dopo un futile alterco con la sua compagna e con la di lei figlia adolescente, uccide la prima a coltellate e l’altra con tre colpi di pistola; tutta la sequenza è resa memorabile non tanto per l’indiscussa capacità di stilizzazione del regista nel mettere in scena la violenza nelle sue dimostrazioni più quotidiane, quanto per gli accostamenti simbolicamente dissacranti che l’autore coglie per rendere evidente il perbenismo di certo ceto medio americano, che nasconde le proprie ipocrisie con una superficie di ridicolo candore. In contrasto, emerge un altro dei cardini della poetica di Schrader, la sconfitta, l’impossibilità di una redenzione, il fallimento come unico porto sicuro, nella figura magistralmente ritratta da Willem Dafoe.
Basterebbe questo per raccomandare la visione di un film, invero, assai fumoso e non troppo riuscito, ravvivato solamente dalla rabbiosa carica iconoclasta del suo regista e da alcune esplosioni cinefile (eclatante quella finale da Bonnie & Clyde di Arthur Penn) che denunciano un modo di fare arte, forse, inesorabilmente estraneo agli schermi contemporanei. Aspettiamo il prossimo First Reformed, in concorso a Venezia74, per celebrare un’autentica rinascita.
Giuseppe D’Errico
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