12 anni schiavo (12 Years a Slave, Usa, 2013) di Steve McQueen, con Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Lupita Nyong’o, Sarah Paulson, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Garrett Dillahunt, Alfree Woodard, Paul Giamatti, Brad Pitt, Scott McNairy, Adepero Oduye, Michael K. Williams
Sceneggiatura di John Ridley, dall’autobiografia “Twelve years a slave. Narrative of Solomon Northup, a citizen of New-York, kidnapped in Washington city in 1841, and rescued in 1853, from a cotton plantation near the Red River in Louisiana” di Solomon Northup
Drammatico, 2h 15′, BiM Distribuzione, in uscita il 20 febbraio 2014
Voto D’Errico: 7 su 10
Voto Ozza: 6 su 10
Il film di cui tutti parlano ma che in pochi hanno messo in discussione. La critica americana è andata in visibilio (9 le candidature agli imminenti Oscar e innumerevoli i premi già vinti) per quest’ennesimo mea culpa sullo schiavismo in terra yankee di metà Ottocento, preferendolo (non ci voleva poi molto) all’analogo The Butler di Lee Daniels. Alla regia l’enfant prodige Steve McQueen, inglese con un passato di artista e reduce dalla reclusione mistica di Hunger (2008) e dai gorghi della dipendenza sessuale di Shame (2011), due film scomodi e acclamati in tutto il mondo.
12 anni schiavo prende le mosse dall’autobiografia scritta dal violinista nero Solomon Northup (Ejiofor), uomo nato libero che, da Saratoga, nel 1841, si ritrovò ad essere rapito e venduto come schiavo, e portato a lavorare in una piantagione di cotone in Louisiana. Dapprima trattato con benevolenza dal padrone William Ford (Cumberbatch), sarà poi trasferito nel podere del perfido mercante schiavista Edwin Epps (Fassbender). Saranno dodici anni di orrore, fino all’incontro casuale con l’abolizionista canadese Bass (Pitt), l’unico capace di donargli un’ultima speranza.
Al cinema, come in ogni forma d’arte, l’estetica non dovrebbe mai essere separata dall’etica. Quello di McQueen è un film esteticamente potente, non solo in un’ottica visiva: tutto, in 12 anni schiavo, contribuisce alla costruzione di un’epopea drammatica in cui ogni sfogo di pressione è costantemente negato, dai suoni molesti ricreati dalla partitura musicale di Hans Zimmer, alla fotografia satura di Sean Bobbitt, fino alla recitazione concitata (e non per questo meno efficace) di tutto il cast, terminando con una regia che, in maniera straordinaria, reitera le fasi della violenza in un moto perpetuo fatto di superbi piani sequenza e ipnotiche catene di immagini subliminali.
12 anni schiavo è anche un film eticamente assai ambiguo, di quella ambiguità che fece guardare con sospetto a quell’atroce operazione commerciale che fu The Passion di Mel Gibson. In un racconto tanto didascalico e manicheo, con una divisione così sfacciata tra neri buoni, umiliati e imploranti e bianchi cattivi, amorali e glaciali, non sembra avere un’onesta giustificazione l’utilizzo tanto insistito di percosse e flagellazioni, se non quella di colpire nel modo più rozzo il basso ventre dello spettatore. L’artificio è tale da gettare un’ombra su tutto il film, ed è palese quando entra in scena il produttore Brad Pitt, il salvatore del povero Solomon.
L’emozione collassa sullo schermo, con buona pace delle lacrime caldamente versate dagli schiavi presi a frustate, a cui va tutta la nostra pietà, e basta. Perché non c’è scarto, non c’è approfondimento, tutto è chiaramente e inesorabilmente scontato, e le psicologie non si discostano poi molto da quelle tagliate con l’accetta del vecchio e malvisto Mandingo (1975) di Fleischer.
12 anni schiavo è un ottimo film sulla schiavitù, ma non uno dei migliori sul tema. Dell’implosione McQueen è in parte colpevole: se la sceneggiatura è limitata (“Io non voglio sopravvivere. Io voglio vivere”), la regia sfiora l’autocompiacimento. A farne le spese sono il dramma e la Storia, che non dilaniano l’animo come la consunzione di Bobby Sands in Hunger né provocano lo stesso disagio e impotenza della furia autodistruttrice di Brandon in Shame.
Giuseppe D’Errico
Sono in assoluto accordo sul commento riguardo al film ” 12 years a slave”. Per me e’ stato molto mediocre nel soggetto, che era scontato. E il fatto che un uomo bianco abbia alla fine salvato un uomo nero è di una retorica antipatica e razzista.