Venezia75 – Concorso: “At Eternity’s Gate”, un film di Julian Schnabel, la recensione

Van Gogh – At Eternity’s Gate (At Eternity’s Gate, Usa/Francia/GB, 2018) di Julian Schnabel con Willem Dafoe, Oscar Isaac, Rupert Friend, Mads Mikkelsen, Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner, Niels Arestrup, Lolita Chammah, Anne Consigny

Sceneggiatura di Jean-Claude Carrière, Julian Schnabel, Louise Kugelberg

Biografico, 1h 50′, Lucky Red, in uscita a gennaio 2019

Voto: 8 su 10

Raccontare l’arte attraverso un’opera d’arte. L’ha fatto, con At Eternity’s Gate, il pittore e regista newyorchese Julian Schnabel, di ritorno dietro alla macchina da presa a quasi nove anni di distanza dal modesto Miral. Quella dell’autore di Prima che sia notte e Lo scafandro e la farfalla sembrava una scommessa a dir poco azzardata: proporre in chiave personale non l’artista Vincent Van Gogh ma il suo estro, la sua visione della vita e del mondo attraverso la realizzazione dei suoi dipinti, incurante di una sterminata produzione filmografica che ha interessato il geniale e sfortunato pittore olandese, morto a 37 anni in circostanze mai del tutto chiarite. A vestire la camiciola azzurrina e il cappello di paglia di Van Gogh è un grandissimo Willem Dafoe, trasformista mirabile che, al pari di Tilda Swinton e a dispetto dei suoi 63 anni, sembra poter incarnare ogni ruolo ed età sullo schermo.

Il film segue il protagonista negli ultimi anni della sua vita, forse il periodo più intenso e prolifico per una produzione artistica tanto disprezzata dai suoi contemporanei quanto intrascendibile per la cultura del Novecento. Nel suo quaotidiano errare alla ricerca del soggetto giusto da trasporre su tela, Van Gogh si interroga su cosa sia la bellezza, la felicità, su come catturare la luce del sole e sul perché e il per come di tutto ciò che affligge e anima l’essere umano. In nuce si riflettono il burrascoso rapporto col collega Paul Gauguin (Oscar Isaac), l’amore unico e incondizionato per il fratello Theo (Rupert Friend) e l’incapacità altrui di coglierne la purezza interiore.

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Discostandosi da una tradizione che ci ha tramandato la figura di un artista psicolabile, scontroso, fragile e quasi del tutto inconsapevole del suo talento, Schnabel e il suo mitico sceneggiatore Jean-Claude Carrière ci consegnano la nuova immagine di un uomo dal pensiero estremamente lucido e realistico, in grado di stabilire una propria centralità nell’universo che vive e di poter affermare in tutta chiarezza di sapere solo dipingere e che la semina del presente potrà godere di un raccolto solo dopo la sua morte. L’ottica possibilista, sposata completamente e con sentita convinzione dagli autori, trova conferma nel rifiuto categorico di avvalorare la tesi del suicidio di Van Gogh, che in realtà sarebbe stato ferito mortalmente con un colpo di pistola da alcuni ragazzini durante un tentativo di furto mal riuscito.

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La “sete di vita” che fu già fulcro del capolavoro di Vincente Minnelli del 1956, con l’iconica interpretazione di Kirk Douglas, si rinnova in Schnabel senza tormento ma, al contrario, con una voglia di essere soddisfatta attraverso i colori della natura, in un abbraccio totale tra uomo e immenso. Il regista cattura l’istante vitale e coglie questa caratteristica di “pacificazione”, questa visione ottimistica del grande pittore, attraverso una serie di incontri che, di volta in volta, scandiscono il racconto di un’esistenza votata all’amore, che dall’arte trasfigura in ogni forma dell’essere. Willem Defoe alterna gravitas e sensibilità, donando al personaggio lo stupore e la meraviglia che, da una manciata di terra o da una vistosa casa gialla, possono ritrovarsi poi in una pennellata densa e rapida che arrivi a completare un’opera destinata a fare storia. Quasi una forma di riscatto, sicuramente una splendida speranza per poter ripensare con ottica nuova a un artista immenso, pur nella nobile bugia di un’operazione cinematografica. “Riuscire a creare qualcosa di imperfetto, di anomalo, qualcosa che alteri e ricrei la realtà, in modo tale che ciò che ne risulta siano anche delle bugie, se si vuole, ma delle bugie più vere della verità letterale” (Vincent Van Gogh).

Giuseppe D’Errico

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