“Trainspotting” di Irvine Welsh, versione di Wajdi Mouawad, uno spettacolo di Sandro Mabellini, la recensione

TRAINSPOTTING
di Irvine Welsh
versione di Wajdi Mouawad

traduzione di Emanuele Aldrovandi
uno spettacolo di Sandro Mabellini
con Michele Di Giacomo, Riccardo Festa, Valentina Cardinali, Marco Bellocchio
costumi Chiara Amaltea Ciarelli
drammaturgia scenica Riccardo Festa, Michele Di Giacomo, Marco Bellocchio, Valentina Cardinali
coproduzione Viola Produzioni S.r.l. – Accademia degli Artefatti

In scena al Teatro Brancaccino di Roma dal 5 all’8 aprile

Voto: 8½ su 10

Non era facile traslare un oggetto di culto come Trainspotting in una dimensione teatrale, non tanto per la crudezza delle tematiche e neppure per il simbolismo cui sono assurti i personaggi nell’immaginario collettivo universale, ma soprattutto per come Renton e soci siano riusciti a veicolare lo sfogo disperato di un’intera generazione di contestatari verso la cauta prevedibilità piccolo borghese, dapprima attraverso le pagine del romanzo scomodo di Irvine Welsh, poi nella sua folgorante trasposizione cinematografica diretta da Danny Boyle nel 1996. L’esperimento di “traduzione scenica” di Wajdi Mouawad, per farla breve, correva il rischio di banalizzare questo nuovo urlo sociale, che trova la peggiore via di fuga dal reale nella droga, e di trasformare un manifesto del disagio giovanile nell’ennesima, didascalica propaganda contro l’abuso di stupefacenti. Oltretutto, non era da sottovalutare il possibile effetto di anacronismo dell’operazione. 

trainspotting-locandinaLa riscrittura dell’autore canadese smonta fin da subito qualsiasi pregiudizio e restituisce il senso di squinternato abbandono di chi sceglie di non scegliere la vita, senza mai tradire lo spirito di Welsh, ma questa volta è la messa in scena di Sandro Mabellini a fare realmente la differenza. Costantemente votato a tradire le aspettative del pubblico, l’assetto registico adottato per questo disturbante allestimento di Trainspotting si fa tutt’uno con le strepitose performance attoriali di Michele Di Giacomo, Riccardo Festa, Valentina Cardinali e Marco Bellocchio, ai quali si deve la costruzione di una “drammaturgia scenica” che riesce a essere persuasiva con pochissimi mezzi a disposizione, ma con un’inventiva travolgente di gesti, spazi ed elementi.

Il fondale nero è un murales di nomi ormai mitici, mentre lo schermo di un computer scandisce il racconto in capitoli e riflette le immagini di una sottocultura che passa dai martellanti videoclip di house music a Jean Claude Van Damme. I protagonisti ci fissano seduti, stropicciati, annoiati, in mutande, in attesa di vomitare l’inizio di una storia fatta di pulsioni irrefrenabili, di sesso, feci, sbronze, dosi e vergogne. Si respira un’atmosfera malsana, si ascoltano voci e confessioni a lume di microfono, si toccano i nervi scoperti delle proprie insoddisfazioni, mentre persino l’irritante ottimismo di un motivetto nostrano diventa occasione per precipitare nell’incubo. Per chi ha il pelo sullo stomaco, un entusiasmante esempio di teatro contemporaneo.

Giuseppe D’Errico

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