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“Un Tram che si chiama Desiderio” di Tennessee Williams, uno spettacolo di Pier Luigi Pizzi, la recensione

UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO

di Tennessee Williams (traduzione di Masolino d’Amico)

con Mariangela D’Abbraccio, Daniele Pecci e con Giorgia Salari, Eros Pascale, Erika Puddu, Giorgio Sales, Massimo Odierna

regia e scena Pier Luigi Pizzi, musiche Matteo D’Amico, artigiano della luce Luigi Ascione

produzione GITIESSE Artisti Riuniti diretta da Geppy Gleijeses

In scena al teatro Quirino di Roma fino al 6 febbraio 2022

Voto D’Errico: 6 su 10

Voto Rossi: 8 su 10

Ci sono voluti due anni affinchè il Tram del maestro Pier Luigi Pizzi, con a bordo Mariangela D’Abbraccio e Daniele Pecci, fermasse al Teatro Quirino. Una chiamata carica d’attesa per un testo cardine della drammaturgia americana del secolo scorso, già portato in scena in Italia con allestimenti celeberrimi, come quelli di Visconti e De Capitani. Le luci accecanti del sogno americano, filtrate attraverso il velo del moralismo e dell’ipocrisia sociale più spietata e rapace, tornano ora in una rappresentazione profondamente fedele alle pagine di Tennessee Williams (nella traduzione storica di Masolino D’Amico), ma anche priva di una reale visione d’autore capace di caratterizzarla e imprimerla nella memoria.

“Il fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello, uno spettacolo di Guglielmo Ferro, la recensione

Arca Azzurra Teatro, La Contrada Teatro Stabile di Trieste e ABC Produzioni presentano
Daniele Pecci
con Rosario Coppolino e con Maria Rosaria Carli in
IL FU MATTIA PASCAL
di Luigi Pirandello
adattamento di Daniele Pecci
e con Giovanni Maria Briganti, Adriano Giraldi, Diana Höbel, Marzia Postogna e Vincenzo Volo
scene Salvo Manciagli
costumi Françoise Raybaud
musiche Massimiliano Pace
regia Guglielmo Ferro

In scena al Teatro Quirino di Roma fino al 18 novembre 2018

Voto: 6 su 10

Da un capolavoro letterario che non ha certo bisogno di presentazioni, l’ottimo Daniele Pecci ricava una riduzione teatrale non più che corretta e indolore. Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, nell’adattamento dell’attore romano e con la regia fin troppo essenziale, per non dire statica, di Guglielmo Ferro, soffre soprattutto l’inevitabile corto circuito del romanzo trasformato in copione e trapiantato sulle assi del teatro. Non di rado, l’esperimento ha dato i suoi frutti, specie se è l’autore stesso a rimaneggiare la sua creatura per renderle confortevoli le insidie della platea (recentemente è stato il caso de La guerra dei Roses di Warren Adler), altre volte il responso è stato più crudele. Nel caso di un autore cult come Pirandello, la faccenda si fa ancora più delicata, perchè legittimamente sorge il dubbio sull’utilità di una trasposizione teatrale di un romanzo, tra l’altro tra i più letti e studiati di sempre, pensato e strutturato come tale da una delle più grandi personalità letterarie del Novecento che, invero, tanto ha dato proprio all’arte del teatro.

“Amleto” di William Shakespeare, uno spettacolo di e con Daniele Pecci, la recensione

AMLETO
di William Shakespeare

Compagnia Molière

con Maddalena Crippa, Daniele Pecci, Rosario Coppolino

e con Giuseppe Antignati, Sergio Basile, Mario Pietramala, Marco Imparato, Vito Favata, Maurizio Di Carmine, Mariachiara Di Mitri, Pierpaolo de Mejo, Domenico Macrì, Andrea Avanzi, Mauro Rancanati

costumi Maurizio Millenotti

regia Daniele Pecci

Andato in scena al Teatro Duse di Bologna

Voto: 5 su 10

Il grande dilemma che ha portato in scena Daniele Pecci con la sua regia e interpretazione di Amleto,  al Teatro Duse di Bologna, non è tanto il famigerato “Essere o non essere” quanto il domandarsi se stravolgere un grande classico abbia veramente senso. Quali sono i motivi per cui si sceglie un testo che ha solcato centinaia di secoli fino ad arrivare ai nostri giorni per la sua forza, la sua potenza espressiva, la musicalità delle parole e snaturarlo? Rendere lo spettacolo più fruibile a un pubblico moderno e più variegato è una risposta plausibile? Non fare l’ennesima versione scespiriana in costumi d’epoca, cercare di trovare una chiave originale è un intento più che legittimo per un regista e per gli attori, ma davanti ai grandi classici una sana sacralità, a mio avviso, andrebbe rispettata.