Stefano Zenni: il volto umano del jazz

P1010565_webCiò che sorprende di più di Stefano Zenni non è soltanto un curriculum sconfinato – è presidente della Società Italiana di Musicologia Afroamericana (SIdMA), membro dell’International Advisory Board del Center for Black Music Research di Chicago e fondatore del Center for Black Music Research/Europe, nonché redattore del New Grove Dictionary of Jazz II; è docente di Storia del jazz e della musica afroamericana nei Conservatori di Bologna, Firenze, Pescara e Analisi presso Siena Jazz, giornalista e scrittore super impegnato, oltre che direttore artistico del Torino Jazz Festival, della rassegna Metastasio Jazz a Prato e della stagione musicale della Società del Teatro e della Musica L. Barbara di Pescara – quanto il sorriso illuminato che nasce ogni volta che parla del proprio lavoro e l’entusiasmo di portare qualcosa di nuovo sulla scena italiana, oltre che la passione incondizionata che muove tutto, come solo il più alto dei sentimenti sa fare.

Il Torino Jazz Festival è finito da poco, prima di tutto: come stai?

Sono in ripresa. Soprattutto sto cercando di elaborare tutto quello che è accaduto per farne tesoro in futuro, cercando di guardare il festival sia dall’esterno sia nei dettagli interni. E soprattutto cercando di non farsi sopraffare dalla soddisfazione, che è davvero tanta.

Una seconda edizione che non si è fatta piegare dal maltempo. Si contano infatti oltre 130mila presenze e un successo notevole per tutte le iniziative presenti in cartellone: quanto è stato difficile riuscire a coordinare il tutto e quanto a strutturare il fil rouge che ha tenuto unite le diverse dimensioni del festival?

Ci sono due aspetti da considerare. Il festival ha funzionato perché c’è uno staff di persone di eccezionale e comprovata professionalità, guidate da Claudio Merlo, direttore organizzativo, a Giuseppe Baldari, direttore di produzione, oltre al mio assistente Franco Bergoglio e all’ufficio stampa di Luisa Cicero. Le decine di persone che hanno lavorato sono abituate a sfide assai complesse ed hanno realizzato il festival con grande fatica ma anche senza sbagliare un colpo. A livello artistico la programmazione è stata fatta a tavolino con grande attenzione per i percorsi, la coerenza, i collegamenti tematici e questo poi per fortuna ha funzionato anche nel tessuto vivo della città. Abbiamo percepito con chiarezza questa fusione tra ricchezza artistica, coerenza culturale e immersione nel tessuto urbano.

Oltre alle varie performance nelle piazze, ha funzionato molto bene la programmazione del Fringe: qual è stato il valore aggiunto, in questo caso, secondo te?

Il Fringe è una grande idea di Furio Di Castri, il suo coordinatore artistico, e di Francesco Astore, il suo produttore. Il fatto che abbia una sua macchina produttiva autonoma è il suo punto di forza, anche a livello urbanistico, perché investe la parte della città più legata al fiume. Ma al tempo stesso quest’anno con Furio abbiamo lavorato ad un’integrazione con il programma principale tale da riuscire ad intrecciare artisti e suggestioni dei due mondi. Un’integrazione che in futuro sarà ancora più stretta.

Ormai hai una grande esperienza anche sotto il profilo della direzione dei festival: quali sono le caratteristiche che dovrebbe avere un BUON direttore artistico?

Su un piano ideale, un direttore artistico deve avere una visone culturale. E per realizzarla, almeno in musica, deve avere esperienza musicale diretta (suonare uno strumento, ad esempio), possedere una sensibilità artistica nella narrazione e nell’accostamento degli eventi, conoscere la storia e le esigenze del territorio, ed ovviamente avere qualità relazionali e manageriali. E siccome nessuno “nasce imparato” e nessuno ha tutte queste qualità in egual misura, è fondamentale poter fare esperienza con uno staff di persone che compensano debolezze, inesperienza o minore attitudini in certi campi.

Viaggi per l’Italia in lungo e in largo, e non solo: quali sono i tuoi prossimi progetti? Cosa ci dobbiamo aspettare dal “futuro” Zenni?

Per ora insegno molto, una dimensione profondamente gratificante nella quale mi sento totalmente a mio agio. Poi sto pensando alle prossime edizioni di Metastasio jazz e ovviamente di Torino. Ma soprattutto mi piacerebbe pian piano avvicinarmi ad un progetto editoriale su Duke Ellington.

Com’è lo stato di salute del jazz in Italia, ad oggi? Ci sono, a tuo avviso, differenze sostanziali con la scena internazionale?

Sul piano istituzionale siamo in ginocchio: mancanza di risorse, incertezza nella programmazione, difficoltà per i musicisti ad avere lavori continuativi. E tuttavia vantiamo talenti che all’estero si sognano, in termini di creatività e originalità. Da nessuna parte esiste una ricchezza di cooperative e associazioni, come El Gallo Rojo, Bassesfere, Improvvisatore Involontario ecc, che consentono ai giovani musicisti di esprimersi in libertà e ragionano in una prospettiva europea. In questo senso siamo d’esempio per altri paesi.

Giulia Focardi

 

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