“Ready Player One”, un film di Steven Spielberg, la recensione

Ready Player One (id, Usa, 2018) di Steven Spielberg con Tye Sheridan, Olivia Cooke, Ben Mendelsohn, Simon Pegg, Mark Rylance, T.J. Miller, Hannah John-Kamen, Win Morisaki, Daniel Tuite, Philip Zhao, Rona Morison, Raed Abbas

Sceneggiatura di Zak Penn, Ernest Cline, dal romanzo omonimo di Ernest Cline (Isbn edizioni, coll. Special books)

Fantascienza, 2h 20′, Warner Bros. Pictures Italia, in uscita il 28 marzo 2018

Voto: 8½ su 10

In un’epoca di ripresa nostalgica del passato, che ha trovato le sue interpretazioni migliori in La La Land e IT al cinema e nel serial Stranger Things in tv, non era scontato che si giungesse alla glorificazione massima dell’immaginario pop degli anni Ottanta proprio attraverso lo sguardo “infinito” di uno dei suoi incontrastati padri fondatori. E non è un caso che Ready Player One arrivi in sala a distanza di pochi mesi da un bellissimo film impegnato come The Post: signori, questo è Steven Spielberg, un cineasta immenso che, dall’alto di una filmografia che ha scritto la storia della nuova Hollywood e non solo, ha da sempre affiancato all’autore liberale e sensibile ai diritti dell’essere umano, anche il sognatore, l’eterno bambino che viaggia con la mente e gioca col purè.

53763Tratto dal romanzo cult di Ernest Cline, da lui stesso rimaneggiato per lo schermo insieme a Zack Penn (riunendo così gli sceneggiatori di Fanboys e Last Action Hero, due progetti assolutamente prossimi al film di Spielberg), Ready Player One è una fantasmagoria incontenibile ed elettrizzante, visionaria e malinconica, di un reale futuristico – siamo nel 2045 – che strizza sistematicamente l’occhio all’universo videoludico degli Eighties, in un vortice di rimandi e citazioni che dal cinema passano alla musica, ai fumetti e ai videogames.

In una città affastellata di roulotte scalcagnate che sembra più una bidonville del terzo mondo, gli uomini sfuggono dall’aridità del quotidiano grazie a un sofisticato sistema tecnologico che trasporta in una realtà parallela e virtuale, OASIS, dove tutti hanno diritto a vivere con un proprio avatar. Qui trova rifugio il diciassettenne Wade Watts (Sheridan), convintosi ad andare fino in fondo al “gioco di Anorak”, una sorta di caccia al tesoro ideata dall’inventore James Halliday (Rylance) per stabilire chi sarebbe diventato il degno erede di Oasis e gestirne l’enorme fortuna economica nel mondo reale. Ad aiutare Wade nell’impresa c’è la sfuggente Samantha Evelyn Cook (Cooke), con la maglietta di Unknown Pleasures dei Joy Division, mentre il tirannico Nolan Sorrento (Mendelshon), CEO di una multinazionale tecnoligica, è pronto a tutto pur di impossessarsi delle tre chiavi che chiudono il gioco.

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Nel magmatico profluvio di omaggi all’iconografia del decennio della DeLorean, di Van Halen e di Shining, letteralmente ricreato per un tuffo a dir poco emozionante nell’Overlook Hotel, nella stanza 237 e nel mitico labirinto innevato di Kubrick, Ready Player One celebra il trionfo dell’immaginazione in un momento storico in cui la tecnologia sembra giocare all’appiattimento delle menti; lo fa attraverso un racconto di formazione nella migliore delle poetiche spielberghiane, dove la resistenza del singolo si fa specchio di un reale in lotta contro l’illusorietà del virtuale, un bel messaggio per l’alienazione new tech che affligge le nuove generazioni. Tutto questo in un mastodontico, caotico e spettacolare regalo per lo spettatore cresciuto in quella favolosa decade, che si ritroverà a guardare lo schermo con gli occhi del bambino che teneva il poster di Ladyhawke in cameretta. Solo Steven Spielberg poteva (ri)portarci “a casa”.

Giuseppe D’Errico

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