“Noah”, il kolossal biblico con l’anima d’autore ecologista

Noah (id, Usa, 2014) di Darren Aronofsky con Russell Crowe, Jennifer Connelly, Anthony Hopkins, Ray Winstone, Emma Watson, Logan Lerman, Douglas Booth, Marton Csokas, Leo McHugh Carroll, Madison Davenport

Sceneggiatura di Darren Aronofsky e Ari Handel

Drammatico, 2h 18′, Universal International Pictures Italia/ Paramount Pictures, in uscita il 10 aprile 2014

Voto: 7 su 10

Dal regista di Requiem for a dream, The Wrestler e Il cigno nero, ora un kolossal biblico da 150 milioni di dollari. Certamente le perplessità c’erano e, a conti fatti, neppure troppo mal riposte. Darren Aronofsky, l’autore del corpo come carne, dell’ossessione come morte, alle prese con una breve storia epica narrata nella Genesi. A venirne fuori è uno spettacolare filmone hollywoodiano sulla creazione e il diluvio universale, con più di una concessione al nuovo gusto fantasy di matrice jacksoniana e al lirismo di massa resuscitato da Il Gladiatore. Da quest’ultimo riprende il protagonista Russell Crowe, che ci ricorda di essere ancora un grande attore, per il ruolo del prescelto Noé, chiamato da Dio a costruire un’arca prima che l’apocalisse divina distrugga il mondo.

Noah-filmLa carenza estrema di fonti bibliche a riguardo ha spinto Aronofsky e il suo co-sceneggiatore Ari Handel a una “interpretazione cinematografica” dell’episodio, senza necessariamente tradire lo spirito catechetico delle Scritture. Capiamo così che il Creato è vittima di una guerra fratricida causata dalla stirpe di Caino, dedita a ogni sorta di sopruso e violenza sul prossimo, e che il solo modo per porre fine a questo declino è una salvifica distruzione per un futuro di rinascita. Il senso è chiaro, e il film ne accentua la robustezza contrapponendo la famelica dinastia caina, guidata dal re Tubal-Cain (Winstone), alla famiglia allargata, pacifista ed ecologista di Noé: i primi mangiano carne cruda e vivono nella lascivia, i secondi hanno adottato una bambina in fin di vita (avrà poi l’aspetto di Emma Watson), predicano il veganesimo (gli uomini hanno causato la fine del mondo e solo gli animali meritano di vivere) ed evitano il conflitto almeno fino a ordine superiore.

Il discorso è coerente: se, nell’ottica del film a tematica religiosa, Noah riesce a distribuire in maniera efficace i simbolismi biblici fino a renderli concetti fruibili (anche se l’ambiguità di certe esternazioni su giudizio e vendetta lascia più di un dubbio sull’essenza dell’amore di Dio verso l’uomo), da un punto di vista puramente commerciale assicura oltre due ore di spettacolo madornale, con ovvio accento sulla straordinaria sequenza del maremoto che travolge l’arca e quanto gli è attorno. In più, Aronofsky ha almeno un paio di occasioni per dare adito alla sua vena di filmaker sperimentalista: la creazione del mondo in time lapse e la riflessione sul peccato originale restituito – e in maniera reiterata – per associazione di immagini sono pezzi che fanno la differenza. La narrazione, però, è spesso resa faticosa dalla sentenziosità dei dialoghi, dalla prosopopea ambientalista e dalla necessità di giustificare le troppe derive fantasy (i giganti di luce e terra) in un ambito il più possibile divino e non solo favolistico.

noah-film-700x464L’aspetto più interessante di Noah è il suo protagonista, un uomo tenace nella fede al punto da sfiorare un duplice infanticidio, senza nulla togliere all’intera umanità già abbondantemente defunta, e foriera di terribili crisi interiori legate alla colpa insita in ogni essere umano e all’emarginazione del sopravvissuto. La gravitas del personaggio sorregge tutto il film, e ha in Crowe un interprete di solenne spessore scenico. Sempre bravi anche Jennifer Connelly, nei panni della fedele moglie Naameh, Anthony Hopkins in quelli del nonno Matusalemme, e Ray Winstone; deludono invece i giovani Watson, Lerman e Booth, anche a causa dell’aspetto più debole della sceneggiatura, il rapporto tra padre e figli in un esterno di devastazione.

Giuseppe D’Errico

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