“La Bohème” di Giacomo Puccini, uno spettacolo di Graham Vick, la recensione

LA BOHÈME di Giacomo Puccini

Opera in quattro quadri su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica

Interpreti
Mimì   Mariangela Sicilia, Alessandra Marianelli (20,23,25,28/01)
Musetta          Hasmik Torosyan, Ruth Iniesta (20,23,25,28/01)
Rodolfo           Francesco Demuro, Matteo Lippi (20,23,25,28/01)
Marcello         Nicola Alaimo, Sergio Vitale (20,23,25,28/01)
Schaunard       Andrea Vincenzo Bonsignore
Colline       Evgeny Stavinsky
Benoit/Alcindoro        Bruno Lazzaretti
Parpignol        Guang Hu (Scuola dell’Opera)
Un venditore   Coro

Orchestra, Coro, Coro di voci bianche e tecnici del Teatro Comunale
Direttore         Michele Mariotti
Regia   Graham Vick
Scene e costumi         Richard Hudson
Luci     Giuseppe di Iorio
Assistente alla regia   Lorenzo Nencini
Assistente alle scene  Justin Arienti
Assistente ai costumi Elena Cicorella
Maestro del Coro di voci bianche     Alhambra Superchi
Maestro del Coro       Andrea Faidutti

Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna

Voto: 9 su 10

È una delle opere più diffuse dell’intero repertorio, tra le più note nel mondo e sicuramente tra le più rappresentate. Eppure la Boheme di Giacomo Puccini, andata in scena per l’apertura di stagione del Teatro Comunale di Bologna, grazie anche al curatissimo lavoro del regista Graham Vick e del direttore d’orchestra Michele Mariotti è tornata a vivere sul palcoscenico con una forza prorompente, che esula dall’opera stessa e manda un forte messaggio anche alle nostre generazioni, grazie anche alle scenografia e alle scelte registiche che giocano su un perfetto equilibrio tra poesia e realismo, quest’allestimento lacera l’anima e rende la Boheme ancora più travolgente di quanto già non lo fosse nelle originarie intenzioni del compositore italiano.

Ciò che ha reso straordinaria la trasposizione di Graham Vick è stata la capacità di avere un punto di vista che non guarda al passato ma è proiettato nel presente, in un mondo che tutti possono riconoscere, in case che abbiamo abitato da studenti, in angoli di strada facilmente riconoscibili facendo un giro per la città, in un tempo che, sebbene non definito, non è il tempo di Puccini, ma il nostro tempo. Tutto ciò crea una forte sintonia emotiva perché l’opera, seppur composta nel 1895, parla un linguaggio emotivo che non conosce tramonti e disvela emozioni, paure, difficoltà che sono rintracciabili più che mai nella nostra epoca.

In ogni quadro messo in scena infatti si assiste a spaccati di vita che toccano le corde dei sentimenti e le fanno vibrare, proprio perché ci si immedesima nella storia dei quattro giovani protagonisti che sono in bilico tra la dimensione lirica e onirica delle loro esistenze e quella concreta, tangibile, fatta di case fatiscenti, brandine cigolanti, freddo e stenti. Sono quattro giovani idealisti, per i quali ancora c’è la speranza che nei sogni si celino infinite opportunità, salvo poi ritrovarsi a dover fare i conti con una realtà molto più cruda che include la peggiore delle verità: la morte. Una morte però che esalta la vita, che ricorda l’ineluttabilità dell’esistenza e, proprio per questo, la necessità di assaporare ogni istante e di riempirlo di bellezza, di gioia, di amore.

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Ed è proprio la contrapposizione tra vita e morte ad essere messa in risalto nella regia di Vick, con un netto cambio di prospettiva e di impatto emozionale tra i primi due atti e gli ultimi. All’inizio infatti, la vita dei giovani protagonisti ci viene presentata come ricca di possibilità seppur immersa in un verismo decadente, di notevole impatto visivo è il secondo atto ambientato al Caffè Mimus, in una scena corale ricca di gioia e colore dove si incontrano tutti i protagonisti. Negli ultimi due atti invece, si squarcia il Velo di Maya, i sogni si scontrano con la realtà nuda e cruda, rappresentata anche visivamente in modo cruento dal regista e il crepuscolo apre le porte al dramma, all’inevitabile, alla morte.

Anche la musica qui è votata a raccontare una storia e lo si percepisce più che mai, con una forte valorizzazione non solo del cantato ma anche della recitazione. Musetta (Hasmik Torosyan) si muove tra la sua seducente esuberanza e la bontà d’animo di una donna sensibile nonostante le apparenze, nonostante gli eccessi, nonostante il bisogno di portare la vita all’estremo per sentirne meglio il profumo. Il Marcello di Nicola Alaimo che brucia d’ardore e di gelosia per la sua amata Musetta è anche lui pieno di sfumature, sia nella voce che nel recitato: vorrebbe una vita più tranquilla ma non riesce al resistere al fascino di Musetta e della sua vita sregolata che tanto ripudia quanto ne è sedotto.

La Mimì interpretata da Mariangela Sicilia è ricca di tonalità, sia nel cantato che nell’interpretazione, evidenziando la fragilità della fanciulla, il suo bisogno di amore e lo squarcio doloroso – reso alla perfezione dal pianissimo in cui la sua voce si dissolve nel commovente “addio, senza rancor” – della consapevolezza della morte. Ottima anche la prova di Francesco Demuro che regala agli spettatori un Rodolfo cristallino e vivace, ma che fa emergere anche un lato pusillanime quando decide di abbandonare Mimì malata e, nel quarto atto, quando tutti soccorrono Mimì, è sopraffatto dal suo dolore e dalla paura, stati d’animo che lo rendono egoista e vigliacco nel suo atteggiamento distaccato nei confronti della sua amata: sembra quasi che voglia scappare, voglia eludere la morte e la responsabilità che l’amore gli impone. Ma non ci riesce, Mimì cadrà esanime sulle sue spalle e lui farà fatica a liberarsi dal peso di quel corpo, dal peso della morte stessa.

Amelia Di Pietro

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