“La battaglia dei sessi”, un film di Jonathan Dayton e Valerie Faris, la recensione

La battaglia dei sessi (Battle of the Sexes, Usa, 2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris con Emma Stone, Steve Carell, Andrea Riseborough, Alan Cumming, Elisabeth Shue, Sarah Silverman, Bill Pullman, Austin Stowell, Natalie Morales

Sceneggiatura di Simon Beaufoy

Biografico, 2h 01′, 20th Century Fox Italia, in uscita il 19 ottobre 2017

Voto: 7 su 10

Non è cosa rara che il cinema americano tenti di raccontare i cambiamenti socio-culturali della storia recente attraverso lo sport, forse l’unico vero aggregatore di massa dei nostri tempi: dal lontano Lassù qualcuno mi ama, con il giovane Paul Newman nei guantoni del pugile Rocky Graziano, fino a Invictus di Clint Eastwood e al più recente Race – Il colore della vittoria (ma gli esempi sarrebbero innumerevoli), il genere agonistico ha quasi sempre combaciato con il racconto di una vicenda biografica capace di veicolare un importante messaggio sociale, all’interno di un contesto storico di profondi mutamenti; all’abilità di scrittura e regia, poi, si demandava il compito di ammantare il tutto con la giusta dose di epica, tanto da rendere partecipe alle gesta degli atleti in campo anche lo spettatore più pigro.

13575_esusaVuduN_NJonathan Dayton e Valerie Faris, compagni nella vita e dietro la macchina da presa, si inseriscono di diritto in questo filone con La battaglia dei sessi, che porta sul grande schermo uno degli eventi sportivi più seguiti e significativi di tutti i tempi, la partita di tennis disputata nel 1973 fra la campionessa del mondo Billie Jean King, paladina di un gruppo di tenniste ribelli in battaglia per ottenere la stessa retribuzione dei colleghi maschi, e l’ex campione e scommettitore seriale Bobby Riggs, un esponente del più retrogrado maschilismo. In piena rivoluzione sessuale, che di lì a poco avrebbe portato alla nascita del movimento per i diritti delle donne, il match rappresentò uno spettacolo culturale destinato a fare storia.

Billie Jean King e Bobby Riggs sono interpretati da Emma Stone e Steve Carell, ed è anche grazie a loro se le parti più convincenti del film sono legate al privato dei due protagonisti, entrambi impegnati a risolvere questioni personali decisamente delicate: l’una, oltre a combattere per la parità dei sessi, deve fare i conti con la propria identità sessuale, scissa tra il rispetto per il marito (Stowell) e l’infatuamento per un’affabile parrucchiera (Riseborough); l’altro, talmente occupato a rincorrere un mediaticità ottenuta con i mezzi più idioti, deve raccogliere i cocci di una famiglia andata in frantumi a causa del vizio del gioco e della sua inaffidabilità. In un registro più intimo e “da commedia”, l’anima indie dei registi di Little Miss Sunshine ha modo di sviluppare una narrazione centrata ed indubbiamente efficace, complice la perfetta aderenza alle parti dei due attori principali e una mirabile ricostruzione d’epoca.

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Al contrario, la sceneggiatura di Simon Beaufoy (braccio destro di Danny Boyle, qui in veste di produttore) svela tutti i suoi limiti quando allarga l’obiettivo del discorso a una disamina ad ampio spettro sugli anni Settanta negli Stati Uniti e sulla complessa fase di transizione che il paese stava attraversando dal punto di vista del costume. In tale prospettiva, il racconto scorre secondo parametri convenzionali e privi di originalità, più preoccupato di rispettare le classiche tempistiche di una narrazione collaudata e sprecando così l’occasione di riflettere seriamente sul peso che un gesto come quello della King ebbe sulla società americana. Dayton e Faris, da par loro, faticano a maneggiare con scioltezza sia l’affresco storico, ridotto a semplice bozzetto, che l’esposizione scandita e regolata degli eventi, senza non dover ricorrere a un utilizzo a volte eccessivo di retorica.

Per il resto, La battaglia dei sessi non delude le attese della prima ora, che fluiscono naturalmente nei momenti concitati del match tennistico, egregiamente messo in scena, il cui risaputo esito avrà un valore tutt’altro che sportivo. Nella sua portata comunitaria, il film si dimostra debole, ma è una storia che vale la pena conoscere.

Giuseppe D’Errico

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