“Jersey Boys”, i ragazzi di Clint dal musical su Frankie Valli e i Four Seasons

Jersey Boys (id, Usa, 2014) di Clint Eastwood, con John Lloyd Young, Erich Bergen, Vincent Piazza, Michael Lomenda, Christopher Walken, Mike Doyle, Renée Marino, Erica Piccininni, Freya Tingley, Jeremy Luke, Joey Russo

Sceneggiatura di John Logan, Marshall Brickman e Rick Elice, dal loro omonimo musical di Broadway

Biografico, 2h 15′, Warner Bros. Entertainment Italia, in uscita il 18 giugno 2014

Voto: 7½ su 10

L’interesse particolare che da sempre Clint Eastwood dedica all’universo musicale ha già avuto modo, in passato, di tramutarsi in splendide e sentite trattazioni drammatiche, dal country di Honkytonk Man (1982) al jazz di Charlie Parker in Bird (1986). Pur avendo ammesso di non amare troppo il nuovo genere pop rock sfumato al doo-wop tanto in voga negli anni Cinquanta, Eastwood non ha rinunciato a trasportare sul grande schermo il musical di Broadway Jersey Boys, di Marshall Brickman e Rick Elice, sull’ascesa e il declino di una delle boy band più influenti di quel periodo e di tutta la cultura americana a venire, i Four Seasons. 

Jersey_Boys_Poster_Italia_midBravi ragazzi italiani del New Jersey, dediti a piccoli crimini e col bel canto come sogno di gloria, Frankie Valli (Lloyd Young) e Tommy De Vito (Piazza) sperano di sfondare nel mondo della musica. Insieme all’amico Nick Massi (Lomenda), e nonostante la benedizione del boss malavitoso Gyp De Carlo (Walken), che si commuove per il talento vocale di Frankie, il gruppo fatica ad affrancarsi dalle comuni serate danzanti. Sarà l’incontro con Bob Gaudio (Bergen) – procuratogli da un certo Joe Pesci (Russo) – a dare il via al fenomeno musicale dei Four Seasons, destinato a segnare in maniera indelebile la storia degli anni Sessanta con hit indimenticabili come Sherry, Big Girls don’t cry e Walk like a Man. Ma alla consacrazione seguirà, inesorabilmente, il declino: problemi famigliari e guai con quel mondo di malaffare che credevano di essersi lasciati alle spalle decreteranno lo scioglimento della band.

Reduce da una serie di impegnative ma sfortunate sortite cinematografiche (Invictus, Hereafter e J. Edgar), il buon Clint depone il fardello dei grandi temi e ritrova tutta quella affettuosa leggerezza che ultimamente gli era mancata. Jersey Boys non rientrerà nell’albo dei suoi lavori migliori perché troppi sono i capolavori che affollano la sua filmografia registica, però sarebbe ingiusto non considerarlo come una delle tappe più felici e coraggiose della sua produzione. Stiamo pur sempre parlando di un regista ottantaquattrenne, un mito indistruttibile del cinema mondiale, che si assume il rischio di trasporre un musical premiatissimo e replicatissimo, senza tradirlo e scansando ogni possibile velleità agiografica.

Il tentativo, a metà strada tra Scorsese e i radio days d’epoca, si traduce in un delizioso ritratto di costume che riflette ancora una volta sull’entusiasmo del sogno americano e sulle radici di appartenenza dell’uomo, in una ricostruzione storica che sfiora la perfezione. A memoria, di rado la macchina da presa eastwoodiana è stata tanto mobile e impertinente (una genialata quasi cartoonesca la carrellata dal basso verso l’alto nelle finestre del Brill Building); allo stesso tempo, persiste un certo manicheismo di narrazione, soprattutto nei personaggi secondari e femminili, che fortunatamente viene soppiantato da alcuni pezzi di scrittura da applausi. Lodevole, inoltre, aver conservato lo stesso cast – favoloso! – dell’allestimento teatrale, con tutte le canzoni eseguite on stage.

Jersey Boys diventa, così, non solo l’omaggio di un grande regista a un pezzo di musica americana, ma anche la testimonianza di un fervore artistico ancora in grado di stupire, divertendo sapendosi divertire. Prova del nove, la chiusura finale e il numero in strada in puro stile musical. Grazie Clint.

Giuseppe D’Errico

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