IL GRANDE MAGO
di Vittorio Moroni
con Luca De Bei
regia Giuseppe Marini
costumi Sandra Cardini
disegno luci Marco Laudando
In scena al Teatro della Cometa di Roma fino al 16 febbraio 2014
Voto: 7 su 10
Di certo non lascia indifferenti Il grande mago, atteso monologo teatrale di Vittorio Moroni sul complesso percorso interiore, e questa volta anche necessariamente esteriore, di un uomo, Andrea, che decide di cambiare sesso e rinascere in Aurora (l’eloquenza del nome scelto parla da sé). Il protagonista è un libro aperto di sensazioni, non fa nulla per dimostrarsi migliore di quello che è, non ha paura di provocare rigetto perché consapevole di essere già inevitabilmente additato come diverso, si corazza di finta forza ma teme i giudizi affrettati e le smorfie d’orrore di chi lo squadra.
Con tutte le fragilità che una situazione così delicata comporta, Andrea ci conduce nel suo mondo di insicurezze per dar voce alla sua incomprensione e per rivendicare la sua vera identità. La schiettezza è talmente chiara, il grido è così sofferto, che non si può non ascoltarlo. E alla fine comprenderlo. D’altro canto, però, il romanzo drammaturgico della sua esistenza ha ombre che paiono meno sincere della sua contrastata sfera intima: gli snodi prettamente narrativi, che senza dubbio permettono alla confessione a cuore aperto di evolversi con efficacia e grande pathos, da un punto di vista squisitamente pratico stridono con l’urgenza e, soprattutto, con la verità del viaggio umano di Andrea.
Le linee guida del racconto ricordano quelle altrettanto ambiziose dell’ultimo film diretto da John Schlesinger, il grande regista inglese di Domenica maledetta domenica, Un uomo da marciapiede, Il maratoneta e altri capolavori, e intitolato Sai che c’è di nuovo?, in cui un uomo gay e la sua migliore amica crescono insieme il figlio che proprio loro hanno generato, salvo poi ricorrere ai tribunali per l’affidamento, data la “particolarità” della coppia. Per carità, il film ha fama meritatamente infelice ed è ben lungi anche solo dallo sfiorare gli abissi psicologici in cui si addentra il testo di Moroni. Come in quel caso, però, le assonanze comuni producono un sapore di occasione mancata o, per meglio dire, non pienamente valorizzata. L’opera cinematografica banalizzava in modo imbarazzante l’argomento genitoriale, il testo teatrale lo affronta con molto più rispetto e serietà, ma resta schiacciato dal melò.
Ne esce benissimo Luca De Bei, uno dei nostri migliori autori e registi (è suo l’allestimento più bello della stagione in corso, il Weekend da Annibale Ruccello), ritornato attore dopo una lunga assenza e calatosi con tale sensibilità negli abiti fini di Andrea/Aurora da non poterlo immaginare con voce o movenze diverse dalle sue. Un’interpretazione strenua e commovente, oltre che evidentemente faticosa (monologo radicale, senza neppure l’aiuto di una scenografia a cui aggrapparsi, con solo l’episodico ausilio di luci e musiche, quelle sì, emozionali) ma sempre ben guidata dalla regia di Giuseppe Marini, che è il vero valore aggiunto di uno spettacolo che trasfigura in una lezione di civiltà.
Giuseppe D’Errico
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